Lucio Salis

Meglio tardi che… Rai: cappitto mi hai?!

Brutti figli di… Mamma Rai

 AAP Edizioni

Diletto


 

 

Diletto

 


 

 

DIOGRAFIA - CURRICULUM dell'Evento

Attore immenso, normalissimo soggettista e sceneggiatore da Oscar. Scrittore godibile. Dialoghista unico, ecc.

 

I primi passi: mai li avesse fatti!

Nasce a Sud di Parigi. Molto a sud: soprattutto a Santa Giusta (Oristano), il 5 Marzo del '47. Da allora, secondo lui, la Sardegna è un'isola ed il Mediterraneo è un lago sardo. Santa Giusta c'è anche sulla cartina geografica di Santa Giusta. All'ingresso del paese troneggia un unico e pomposo cartello che recita: “BENVENUTI A SANTA GIUSTA – ARRIVEDERCI". Il paese non è molto esteso. Lucio nasce in periferia, la terza casa a sinistra.

La sua nascita è ancora oggi ricordata come l'unico fatto nuovo a quel tempo (non era mai successo prima) e attira l'attenzione di tutti quanti i suoi genitori, lasciando perfettamente indifferenti gli altri ottocento abitanti del borgo.

Inizia a scrivere già all’età di tre anni: "La Gerusalemme Liberata", "I promessi sposi", "La divina commedia"... Soltanto i titoli, però, visto che le Opere avrebbero richiesto molto più tempo e lui aveva soltanto tre anni di vita.

Una sera va a dormire: quando si sveglia è già diciottenne. E’ autore di spettacoli ed intrattenitore e, nel tempo libero, studia von Clausewitz. Dopo aver conquistato la Sardegna parte e va a circondare l’Italia.

Il più giovane produttore discografico del mondo: isole comprese

Tra il 1968 ed il 1972 è a Milano. Dirige due case discografiche: Belldisc e Produttori Associati pubblicando, fra gli altri, Fabrizio de Andrè, gli Alunni Del Sole; Duilio Del Prete e Beppe Chierici. Scrive oltre seicento canzoni, ma ne incide solo 120 che vendono qualche milione di dischi. Ottiene anche, ma non si sa come, CINQUE premi della Critica.

Fa, insomma, il '68 da ricco ma si mischia con i proletari. Antesignano dei moderni “parvenues” (che si tagliano il lobo dell'orecchio per far vedere che sono stati rapiti) si fa malmenare dalla "celere" per esibire, anche lui, il "livido da studente”. C'è chi può...

Si sposa all'improvviso contro una ragazza sarda. Il suo sogno è avere dei figli come Sgarbi, Tajani, e la Maiolo per poterli picchiare molto. Invece, dopo gli unici quattro amplessi coniugali, mette al mondo tre figli sani e intelligenti. Non si può avere tutto dalla vita.

Nel '73 - ricordandosi di avere letto sul calendario di Frate Indovino che l'inventore del "Cabaret" si chiamava Rudolphe Salis e si esibiva allo “Chat Noir” di Parigi già nel 1881 - si spaccia per suo nipote. Continua a precorrere i tempi inventando (sic!) il “Cabaret Sardo” prima di Cossiga...

Radio e TV (quando si poteva fare)

Dall'80 lavora a Roma (e ruba il mestiere a Nanny Loy, Ugo Pirro, Massimo Felisatti, Luigi Filippo D’Amico, ecc.) per due anni, a Cinema Democratico. Contemporaneamente, lavora per Radio Uno con Stefano Satta Flores e Nanni Loy. E’ ancora autore e comico di punta in programmi come: Permette, cavallo?, Via Asiago Tenda, Ribalta Aperta, Sapore di Salis ed Il Guastafeste.  Ha un inspiegabile successo riuscendo a campare di monologhi irriverenti finché i "raisti" non scoprono che è un “cane sciolto”. Lo individuano facilmente anche perché somiglia pochissimo ad un asino. Come si sa, alla RAI tengono il cavallo fuori e molti asini dentro...

Grazie alle molte (ma molte) querele da parte di “potenti e notabili” ottiene i suoi più grandi successi nei tribunali.

Nel 1986 Antonio Ricci lo insegue per sei mesi e lo trascina a DRIVE IN. Salis impone il suo stile sobrio e personalissimo e la discrasia linguistica "Cappitto mi hai?" e, per due stagioni, rompe le palle a tutti. Per questa impresa ottiene il TELEGATTO D'ORO '87 ed è il comico dell'anno. Il suo “Cappitto mi hai” viene tuttora usato ed è fonte di citazione in Tv, cinema e teatro, da parte di molti attori, comici, comicaroli e presentatori.

In televisione lo seguono quasi tutti. Si guadagna una popolarità da fare schifo grazie alla quale, in tutto il mondo, gli hanno dedicato, mica vie o piazze… città intere! SALISBURGO… SALISBURY… altro che cazzi! Si monta la testa e rifiuta trentasette film di serie "boh?" e una quantità di vaccate TV.

Propone allora a Ricci il "TELEGIORNALE DELLA PERA" (rieditando un suo sketch collaudato e depositato alla SIAE già dal 1973) ma il funzionario berlusconiano, che come tutti i comici falliti odia i COMICI, boccia l'idea sentenziando: "Non è televisiva". Naturalmente lo è (anche se forse il titolo era scarso). Ricci (grazie al suo genio. In seconda battuta, grazie ai suoi sponsor politici) lo cambia in: "STRISCIA LA NOTIZIA" e, memore della forza d’impatto del sardo, richiama Salis.

Lucio fa la mignotta per una volta e accetta subito e, vestendosi biecamente da donna, si spaccia per la zia di Cossiga, prendendo in giro la persona più ridicola d'Italia: Berlusconi, riuscendo ad estorcergli ben SASSANTAMILA lire di diaria e facendo rischiare il tracollo della Fininvest.

 

Parliamo sempre del 1986/87. La Rai salva il Cavaliere assumendo: Valerio Merola, Guzzanti (padri, figli, nipoti e colf) e tutte le Cirine Pomicione's girls. Burlesquoni, invece, contraccambia licenziando Salis che - seppure inviso a Cossfiga & Craxi - gli portava a casa dodici/sedici milioni di telespettatori ogni sera e qualche miliardata di pubblicità al giorno.

Nel 1991 viene convocato dal direttore di Raiuno, Fuscagni e – mentre lui è convinto di essere stato chiamato per rilanciare RAIUNO - viene puntualmente derubato dei suoi progetti e declassato ad UNO-POMERIGGIO: programma cassato cinque giorni prima della messa in onda. Salis e i suoi collaboratori tornano a casa, mentre gli altri 25 della redazione e dello staff: Maria Teresa Ruta, Carlo Conti e il nipote di Cossfiga, Gianfranco Agus, in testa, riprendono a lavorare una settimana dopo. Fanno soldi ma MAI ascolti o gradimento.  Salis, colpevole di “gravi errori procedurali” rispetto al sistema interno alla RAI (prassi della obbligatorietà della "mazzetta” al funzionario), aggrava la sua posizione denunciando il regista Lippi e il dirigente Carlotti che vengono licenziati (caso più unico che raro: di solito, gli interni Rai che fanno magheggi vengono promossi) e viene finalmente iscritto nella “lista nera di Saxa Ruba e via Teuladra”.

Da allora è disoccupato e vive pigramente la sua fine. Non è riuscito nemmeno a fare un passaggio TV nel processo Cusani!

Il crepuscolo di un mito: dalla TV alla pellicola…

A Pasqua del 1993 esce, in visione al pubblico, MAGNIFICAT di Pippo Avati, che lo vede “protagonista-squartato” nell’unico episodio interessante.  E’, questo del film “formigoniano”, solo uno degli episodi della sua carriera cinematografica. Compare con Renato Pozzetto e Laura Antonelli in Porca vacca nell’80 e con Montagnani/Peynado/Leroy in Baciami strega nell’81, ma è anche il protagonista scelto da Montaldo per il “remake” di "Un cittadino al di sopra di ogni sospetto" nell’82. Nel 1990 è co-protagonista di un telefilm per la regia di Bruno Corbucci. Nel 1998 è a Belgrado e Slazibor per le riprese di Lavrajancos: I dimenticati. Piero Livi lo ha scelto per il ruolo del protagonista. Il film partecipa ai Festival di Palm Springs, Berlino, Mosca, eccetera…

1997, per un errore, viene richiamato dalla Rai come autore. L'Ente gli ha acquistato tre lavori in tre anni: BIRIMBO (striscia satirica quotidiana di 15 minuti), DA GAVINO AL CINGHIALE MARINO (sit-Com di 28 minuti) e BURLESQUE - Piove, governo galantuomo! (fiction di otto puntate da 50 minuti). Il tutto pagato a prezzo di cavolfiore marcio: niente appoggi=niente soldi veri; che vengono generosamente profusi a piene mani ai soliti NN (Nullità note).

Ha rappresentato oltre duemila spettacoli dal vivo - in teatri, locali, stadi - ottenendo sempre uno schifoso successo. “Le mie idee sono le mie puttane" diceva un famoso scrittore francese. Ma nonostante le puttane generalmente si paghino, quasi tutti i comici italiani (ed anche i presunti tali) usano le sue battute a scrocco.

Precisazioni e poscritti vari:

All'età di un anno ha fatto pipì sulle ginocchia di Pietro Nenni e ci tiene a ricordare che anche Emilio Fede ha fatto la pipì in grembo a Berlusconi,                                                                                                                                                                                       ma questo è successo solo giovedì scorso. Inoltre i due sono culo e camicia, anche se ancora non è appurato chi dei due sia la camicia.

E’ Incensurato anche se una volta ha conosciuto Previti e gli ha stretto la mano. Tornato a casa, si è accorto di avere ancora tutte e cinque le dita. Non è poco.

 


 

 

Questo è un racconto di denuncia.  Non è stato scritto per vendetta, ma per ottenere giustizia e dignità. Perché ci si stufa, alla lunga, di subire umiliazioni e di vivere sotto ricatto:

…Se ti metti contro l’azienda non lavorerai mai più per la Rai…

Non denuncio per mio interesse ma perché penso ai miei colleghi bravi e non raccomandati e mi dico che forse manca loro soltan­to un po’ di coraggio.

 

LucioSalis

 

 

 


 

 

                                              


 


 INTRODUZIONE DELL’AUTORE

Ho appena messo in pista il CD di Nina Simone My baby just cares for me e accendo il computer. Mi sento come uno che aspetta fuori dal bar, dopo aver sfidato il duro del quartiere a seguirlo. Comincio.

Tre anni fa. Dopo l’ultima beffa da parte della Rai (o almeno io credevo che fosse l’ultima): ennesima promessa contrattuale non mantenuta, ebbi un incontro piuttosto sofferto col mio avvocato. Abitavo a 30 Km da Roma ed ero senza auto da un pezzo. Dino Quaglietta, il mio giovane legale, venne a trovarmi in un pomeriggio plumbeo e umido, organizzato per l’occasione dallo scenografo celeste, e parlammo dell’eventualità di denunciare l’Azienda. Io ero parecchio giù di corda e stavo per mollare i freni.

Anche perché avevo appena ricevuto un’altra legnata tosta: la mia ragazza, dopo sette anni di convivenza idilliaca, aveva cominciato da qualche mese a cadere in depressione e aveva deciso di tornare dai suoi in Sardegna. “Ti ho dato tutto – mi ripeteva piangendo. – Non ho più nulla da darti. Perdonami, ti amo ma non ce la faccio più…” Dio mi dava delle terribili gomitate nello stomaco mentre lei mi dilaniava l’anima, ed io la guardavo, guardavo i suoi 25 anni bellissimi e gentili, poi dirigevo lo sguardo verso gli alberi al di là della finestra del mio studio, alla ricerca di una soluzione. Come se potesse venirmi dal boschetto, la soluzione. Così, una mattina dal cielo identico a quelli dei libri di favole, nuvole come piccoli spari disseminati nel turchese, Monica tornò dai suoi ed io rimasi solo in quella casa ormai nemica. Campicchiavo ancora grazie a qualche assegno e a qualche vaglia che i miei amici, sparsi per l’Italia, mi mandavano per tenermi vivo. Chi mi aiutava non era gente ricca, tutt’altro. I conoscenti ricchi erano spariti di colpo, dopo gli impresari e insieme all’interesse dei giornali. Come un temporale estivo. Così, anche per sincerarsi che non commettessi sciocchezze, il pomeriggio successivo alla partenza di Monica venne a trovarmi Dino. Sviscerammo la situazione in lungo e in largo. Poi, con la portiera della sua auto aperta, dopo che ci eravamo già salutati lui ebbe un’idea: “Mentre io provo a riannodare i fili alla Rai, tu usa la tua arma più potente, scrivi! Prepara una bella memoria circostanziata e vediamo che succede.”

 

 Sempre Dino: “Invece di commiserarti, che non è da te, perché non ci fai un bel libro su questa vicenda?” Perché no? Per la prima volta nella vita, userò questa mia arma micidiale pro domo mea. Certo. Perché no? Si scrive male con la pancia vuota e la testa piena di pensieri brutti. Si vive male. Ci penso. OK, ci penso seriamente. E, in una notte da tregenda, chi viene ad interrompere i miei incubi? Mi appare in sogno Clay Pitts, un mio vecchio amico americano, scrittore e musicista, che negli anni‘70-’71 veniva spesso a trovarmi a Milano. Clay era un onesto gay, somigliantissimo al cantante Gene Pitney, molto dolce e coltissimo. Insieme, curammo la versione americana de “La messa beat” o “Messa dei giovani”, un LP di Giombini e Scoponi, inciso dai Barrittas, che avevo prodotto per la Bluebell Records. Clay veniva a cena a casa mia, leggeva le mie cose e mi parlava di un certo Charles Bukowski. “Tu scrivi un po’ come lui. Come lui sei anarchico e ti piace bere forte…” Più in là, leggendo tutti i libri del vecchio Hank (che mi facevo tradurre da Laura, la mia segretaria per l’estero) e tutto ciò che Fernanda Pivano ci raccontava sullo scrittore maudit, scoprii di avere sul serio moltissime affinità con quel vecchio ubriacone. A parte il fatto che lui era bravo davvero, altre due cose ci dividevano, oltre all’oceano: io bevevo e bevo (quando me lo posso permettere) una bottiglia di rosso Cannonau da 13 gradi e mezzo a pasto e pure qualche birretta Ceres qua e là, ma non mi sono mai ubriacato e non vomito mai. Mi piace essere allegro, ma sempre presente e lucido. Inoltre, non odio il mio prossimo né tantomeno l’umanità intera. Ma scopo come un riccio, sono disincantato e caustico, credo in valori perduti come l’amicizia e la lealtà e prediligo ragazze con la metà dei miei anni. Questo sì. E loro prediligono me, anche quando ho la panza, a qualche bel giovane palestrato e acefalo. Da sempre denuncio tutte le ingiustizie di cui vengo a conoscenza, mi stanno sul cazzo i politicanti fasulli, e combatto in prima linea da quando avevo 8 anni. Così, dopo il sogno visitato da Clay, mi sono rimboccato maniche e coglioni ed eccomi a scrivere queste poche pagine cercando di essere il meno salisiano e bukowskiano possibile. Buona lettura.

 

 

 

 


                                                                  I

Sono nato (mai l’avessi fatto!)

<<Non riesco a credere che tu sia mio figlio… Come cazzo credi di riuscire a combinare qualcosa in questo modo?>>

Charles Bukowski “Factotum”

 

 

Sono nato a Santa Giusta il cinque marzo del 1947. Contrariamente a Berlusconi o a Gianni Agnelli - che abitano dove accidenti pare a loro - io abito dove i padroni delle case che prendo in affitto sono talmente di bocca buona (e/o ladri ed in malafede) da non chiedermi una busta paga. Gli bastano i soldi dell’affitto. Tanti, in nero, e anticipati.

Nonostante questo, ho subìto tre sfratti per morosità (negli ultimi cinque anni) e ciò ha notevolmente complicato la mia consuetudine di abitare vicino a dove sento odore di “pane”.

Negli ultimi nove anni, per esempio, ho vissuto vicino a Roma perché qui è situata la Direzione della Rai, ma anche Cinecittà ed il Vaticano - sebbene questi ultimi abbiano sempre dimostrato un completo disinteresse nei miei confronti. Di mestiere (quando e se me lo permettono) faccio l’autore e l’attore, a livelli tutto sommato elevati. Miracolosi, se si pensa che non ho mai voluto sponsor politici. Prova ne sia il pubblico dei miei oltre duemila spettacoli dal vivo. Teatri sempre gremiti e anche 18 mila paganti per volta negli stadi. E i 12-16 milioni di spettatori dei miei sketch in quattro anni di TV); la critica specializzata, che mi ha sempre accomunato ai “nuovi grandi”: Troisi, Benigni, Verdone; i Telegatti d’oro presi o meritati ma finiti ad altri per ragioni “politiche” e altri scatoloni di premi e riconoscimenti vari. Casse gettate alla spazzatura o smarrite nei traslochi.

 

Se oggi vi racconto qualcosa di me è tanto per capire — io per primo — come accidenti sono potuto sopravvivere a tutte le angherie subite, ed alle umiliazioni, in questi nove anni di morte civile, comminatimi dal trio Cossiga-Craxi-Berlusconi. E dai loro boiardi, spesso più realisti del re.

 

Ma andiamo con ordine. Sono nato a sud di Parigi, dicevo: molto a sud, ma soprattutto a Santa Giusta, provincia di Oristano. Un paesino sulla costa occidentale della Sardegna. Nascere laggiù è un po’ come nascere negri, ebrei e comunisti in Alabama. E’ un mestiere duro. È anche penalizzante, diamine! Specie se poi vuoi fare l’attore, l’autore di canzoni, il produttore discografico, o lo sceneggiatore di cinema. Sei subito costretto ad emigrare a Roma o a Milano. Io, che ho sempre voluto fare tutte queste belle cose, ho cominciato a scappare periodicamente quando avevo solo sette od otto anni (è poco pratico emigrare a quell’età, quindi mi limitavo a fuggire da casa). Il mio sogno era di fare subito almeno la comparsa a Cinecittà.

Ma scappavo anche perché avevo un padre ferroviere, autoritario e manesco che, volendo fare di me un geometra, disegnava (a colpi di pompa telata o di cinghia) abbondanti proiezioni ortogonali sulla mia schiena e sulle mie coscette ossute. Ancora oggi è craxiano e non ci parliamo nemmeno più da qualche anno. L’ultima volta che scappai da casa avevo quattordici o quindici anni. Ci eravamo appena trasferiti a Cagliari. Lasciai a casa la tessera che mi avrebbe permesso, in quanto figlio di ferroviere, di viaggiare gratis e filai. Ero partito con cinquanta lire in tasca e dentro un abito estivo che mi aveva cucito il nonno sarto. Arrivai a Torino con trentamila lire e un posto di lavoro come fattorino a La Stampa. Come avevo fatto? Raccontando storie. Avevo cominciato ad Olbia, raccontando a un gruppo di emigranti che mi avevano rubato il cappotto con dentro il portasoldi e i biglietti, alla stazione di Macomer. Loro mi avevano fatto riempire abbondantemente lo stomaco e con una colletta mi avevano comprato un biglietto per la traversata. Uno mi regalò persino un pacchetto di Nazionali e dei fiammiferi. Il primo treno per il nord era quello che andava a Torino, poi in Francia, credo. Alla stazione Termini conobbi una splendida signora, che aiutai coi bagagli e alla quale raccontai di essere un orfano fresco: mio padre era appena morto in un incidente e mia madre mi aveva chiesto di tornare per il funerale. Lei stava a Torino coi miei fratellini, io ero in Sardegna in visita alla nonna malata. Le raccontai anche del furto del cappotto e dei soldi. La signora mi fece accomodare vicino a lei in prima classe e mi pagò il biglietto. Raccontò agli altri occupanti dello scompartimento la mia storia e saltarono fuori lacrime e soldi. Tutto a meraviglia. Ero un discreto attore. Temetti di aver rovinato la faccenda quando mi misi a strafare e raccontai che anche mio nonno paterno aveva avuto una fine violenta: era stato ucciso da una rondine. Cioè, non proprio da una rondine: lui stava prendendo il caffè sul balconcino al terzo piano della sua casa, quando un paio di rondini lo sfiorarono con la rasoiata del loro volo; lui si spaventò, perse l’equilibrio e si schiantò al suolo. Una grande storia magica, per me. Ma qualcuno dei presenti mi fissò incredulo e venni salvato dalla signora gentile che mi mise la testa sul suo seno e mi invitò a fare un pisolino. Prima di scendere dal treno, un signore coi capelli bianchi, pezzo grosso della Fiat, mi diede un biglietto da portare al capo del personale de La Stampa. Disse di essere suo cognato e che gli avrebbe parlato personalmente se ve ne fosse stato bisogno. Ovviamente, appena arrivato a Torino, ringraziai tutti con molta commozione, salutai, ma decisi di non lasciare tracce e gettai il biglietto di raccomandazione. Dopo una settimana, avevo finito i soldi e dormivo sui treni. Mangiavo grazie a un madonnaro siciliano che conosceva tutti i trucchi e i posti per mangiare a sbafo. Suore e roba del genere. A volte, mi offriva qualche pizza e delle sigarette. In cambio lo avvertivo quando arrivava qualche vigile o qualche poliziotto. Lui conosceva i treni che venivano riscaldati qualche ora prima della partenza, così dormivamo a turno. A Torino c’era la neve ed io ero quasi sempre blu e battevo i denti. Un giorno, per colpa della mia distrazione, il mio amico lo portarono via i poliziotti e quella sera andai a dormire da solo sul vagone riscaldato. Il treno partì mentre ero in letargo; fui costretto a scaraventarmi giù alla prima fermata e mi dovetti fare qualche chilometro a piedi, lungo le rotaie gelate, per tornare alla stazione di Porta Nuova. Andai a dormire nei gabinetti. Mi addossai ad un bel termosifone rovente e buonanotte. Venni svegliato da un anziano pederasta che mi faceva delle proposte. Tre o quattro ragazzi sbandati, credendo che volessi portar via il loro finanziatore, mi aggredirono a calci e pugni. Mi difesi bene, ma la PolFer, prontamente intervenuta, lasciò perdere i coatti e trascinò me in ufficio. I policemen mi interrogarono per tutta la notte ed io continuavo a raccontare storie. All’alba, morto di sonno e di fame, con un bisogno impellente di andare in bagno, crollai e raccontai la verità. Eravamo ai primi di novembre. Chiamarono la stazione ferroviaria di Cagliari e parlarono con mio padre. Lo splendido doveva essere veramente incazzato, perché questi poliziotti mi presero e mi trasbordarono al carcere minorile Ferrante Aporti. Tralascio le disavventure in quello schifo di posto. Mi voleva dare una lezione? Sperava di piegarmi? Beh, non ci riuscì. Io avevo una fame tremenda di vivere. Dovevo conquistare il mondo. Comunque, il Ferrante Aporti era una prigione vera, mica roba per signorine. Spacciatori, rapinatori, ladri, assassini, stupratori, magnaccia. Appena entrato, un signore gentilissimo e premuroso mi strappò di dosso il mio bell’abito su misura e mi fece indossare una giacca di panno di due misure più grandi. Era stata blu, ora era piena di sangue raggrumato e moccio secco. La mia nuova casa: una buia cella di due metri per uno e mezzo. Bella, e pure con la porta di sbarre. La notte in cella era più buia. Più fredda. Ma di giorno, in carcere, era come stare fuori. Normale. Solo che si incontravano meno delinquenti. E chi molla? Riuscii a ritagliarmi un mio spazio anche e lì dentro e divenni presto un beniamino e un capo. Ruppi anche la testa ad un guardiano che mi aveva picchiato e per questo rischiai di rimanerci a lungo in quel letamaio. Invece mi fecero uscire tre giorni prima di Natale e due poliziotti in borghese mi scortarono fino alla questura di Cagliari. Dove il vecchio socialista venne a prendermi con un taxi, una seicento multipla nera.

Ma torniamo indietro agli anni di Santa Giusta.

Mio padre era ateo (o forse agnostico) ma esigeva da me, primo di cinque figli, che fossi il più bravo al catechismo. Era anche vicesin­da­co del paese e non voleva grane da un figlio vivace ed estroverso che, invece, pretendeva assolutamente educato, irreprensibile, e non violento. Così ero diventato il punching-ball preferito dai ragazzini di tutto il paese. Avendo ricevuto il paterno e perentorio ordine di non reagire mai ero il bersaglio preferito dei miei coetanei e le buscavo sempre. Quasi tutti i giorni tornavo da scuola col naso ed il labbro spaccato. Il grembiulino azzurro, sottobraccio, era regolarmente intriso del mio sangue.

In un borgo privo di cinema, teatri, discoteche, e qualunque altro centro ricreativo, fare i gradassi con me era lo spasso preferito dei miei coetanei. Nel sagrato o nel boschetto nei pressi dello stagno potevano tranquillamente prendermi a pugni e a calci, o farmi s’incasàda (riempirmi i genitali di ortiche) lontano dagli occhi indiscreti degli adulti.

Nonostante quello schifo di prima infanzia non sono, però, diventato cinico e cattivo come Previti o sconnesso e patetico come Sgarbi.

Forse perché, intorno alla quarta elementare decisi di reagire. Un bel giorno mi stufai di farmi rompere le scatole e cominciai a rompere io musi, nasi e vetri delle case dei miei nemici. Sapevo che, suonato o suonatore, le avrei comunque buscate dal mio “padre-padrone”. Darmele era, in fondo, la sua seconda incombenza autocratica. Al rientro dal lavoro prima portava dentro casa la bicicletta, poi si toglieva l’orologio e… no scusate… picchiare me era la sua terza incombenza al rientro.

Ero un fringuello di trentacinque chili, ma ero agile come una molla e picchiavo come un fabbro. Ero diventato una peste: il vendicatore solitario di me stesso. C’era una fila perenne di genitori urlanti davanti alla porta di casa nostra. Non fosse stato perché tenevano per mano i loro rampolli pesti sarebbe sembrato lo sportello di un ufficio postale il giorno di pagamento delle pensioni. Tutti si lamentavano di quel delinquente di Lucio ed i miei si affrettavano a dar loro ragione ed a picchiare me. Mio padre, ex pugile dilettante, usava i pugni. Mia madre, più originale e fantasiosa, si serviva di mattarelli, battipanni (calati giù di taglio), pompe da giardino, manici dell’autoclave ed altri strumenti vari.

Avevo circa quindici anni quando ci trasferimmo a Cagliari. Mio padre era stato destinato (a seguito di un incidente) agli uffici della Direzione Compartimentale delle FFSS. Le palazzine dei ferrovieri si trovavano (e sono ancora) nei pressi dell’angiporto della capitale: il posto ideale per venir su come dei baronetti. Pieno di vecchie puttane zoppe o grasse come scaldabagni e con un occhio solo, pederasti in gabardine e con le tasche piene di foto porno in bianco e nero, delinquenti di mezza tacca pieni di sfregi e tatuaggi, alcolizzati rissosi. La crème de la crème, insomma. I ragazzini cagliaritani odiavano is biddunculèsus (i paesani inurbati) e ci provocavano continuamente. Io, a quell’età, avevo già raggiunto la rispettabile altezza di un metro e ottanta “sul livello del mare”. Una statura sproporzionata rispetto alla media isolana, ma pesavo soltanto quarantasette chili. Però riuscivo, in virtù della mia agilità e della determinazione, a venir fuori bene dalle risse insistentemente provocate dai miei prepotenti coetanei indigeni. Sapevo farmi rispettare. Ero sciolto e gentile, e le ragazzine mi guardavano con occhi liquidi. Io collaboravo. Non mi facevo pregare per accompagnarne qualcuna a turno in qualche accogliente vagone abbandonato, su qualche binario morto, dove loro avevano diligentemente sistemato all’uopo alcuni strati d’imballaggi vari. Al riparo, potevamo soddisfare timidamente le nostre curiosità di adolescenti.

Mi ero trovato iscritto alla prima classe dell’Istituto Tecnico per Geometri “Ottone Bacaredda”. Mio padre sembrava esserne orgoglioso ma non capiva come mai (dopo ben cinque mesi di lezioni) io, che pure ero dato per intelligentissimo, non sapessi dire nemmeno “buongiorno” in algebra…

Fu in quel novembre che scappai a Torino.

Al mio ritorno ripresi di malavoglia la scuola.

Iniziai a vendere i temi ed i compiti in classe e, con i soldi guadagnati, fumavo e andavo al cinema quasi ogni giorno. Durante le ore di materie ad indirizzo scientifico (o durante quella di religione) invece di seguire le lezioni leggevo i libri che potevo trovare nella biblioteca scola­stica e in quella comunale. A casa recitavo da solo tutte le parti del Giulio Cesare piuttosto che dell’Amleto di Shakespeare. Creavo anche gli effetti sonori che registravo, insieme alla mie interpretazioni, con lo scassatissimo registratore “Gelosino” che mi prestò Antonello: un compagno che avevo malmenato e che era diventato il mio miglior amico. Quando riascoltavamo insieme le mie interpretazioni, confortato anche dall’autorevole opinione del mio amico, mi sentivo Amedeo Nazzari.

In quel periodo vinsi anche qualche concorso della Settimana Enigmistica (ebbi così la mia prima Olivetti - una Lettera 22) e guadagnai qualche biglietto da mille dalla pubblicazione delle mie prime barzellette (molte delle quali vengono ristampate ancora oggi).

Scrivevo storielle del tipo:

…Il mese scorso hanno fatto il vaccino al mio fratellino, ma non è servito a niente: ieri si è rotto una gamba…

…Per noi, poveri figli di ferroviere, esiste solo la Befana della ferrovia. Per Natale, niente regali: ogni 24 dicembre, mio padre esce sul balconcino della cucina, spara un colpo in aria e rientra, vago, dice che Babbo Natale si è suicidato. Noi bambini ci guardiamo tra le lacrime e andiamo a dormire…

…Ieri mi hanno portato finalmente in spiaggia. Gli altri bambini facevano dei bei castelli con la sabbia. Io castelli non ne ho mai visto, quindi ho fatto la palazzina dei ferrovieri. Una vergogna!…

…Chissà come si chiamava Capitan Uncino prima di perdere la mano?…

Cominciai a fare i miei primi spettacolini. Mi esibii nei saloni della Mutuo Soccorso di Oristano e in qualche festa privata e divenni subito popolare e ricercato per la mia capacità di divertire e intrattenere grandi e piccini. Conoscevo un sacco di vecchie e nuove barzellette ma il mio pubblico preferiva di gran lunga le storie da me inventate.

Quella di maggiore successo diceva:

… Un tipo si presenta per un lavoro da geometra. “Lei ha esperienza?” - gli chiede il titolare. “Perbacco. Sono quasi dieci anni che faccio questo mestiere!”...

“Bene. Come si chiama?”…

“Mi chiamo Garibaldi. Giuseppe Garibaldi.”

“Accidenti! – fa il titolare – Un nome importante.”

“Beh, modestamente. Sa, dieci anni nel campo…”

Ma il mio asso nella manica erano le citazioni latine o dei grandi classici. Poiché a qualunque festa popolare dell’epoca non mancava mai il prete io (furbetto) lavoravo soprattutto rivolgendomi all’esponente del clero e al farmacista: conquistati loro, tutti gli altri del pubblico si accodavano. Tutto mi veniva facile. Eppure, nonostante il grande successo che riscuotevo, in proporzione alla mia età, non avrei mai pensato lontanamente che divertire la gente sarebbe poi diventato il mio mestiere.


 

                                                                  II

Con i miei cugini

<<Ora, io sono un uomo dai molti problemi e   sono sicuro di essermene creati parecchi da solo.>>

C. Bukowski “Storie di una vita sepolta”

 

Nei miei spettacolini ero accompagnato spesso da un trio di vecchi nostalgici: fisarmonica, mandolino, e chitarra. Così pensai di rinvigorire la parte musicale. Coi miei cugini e alcuni compagni di scuola avevo fondato - già un anno prima di trasferirmi a Cagliari - il primo complesso vocale e strumentale della Sardegna e forse d’Italia. Sì, c’erano le orchestrine e qualcuna di loro aveva anche un cantante o una cantante o tutti e due, ma nessuno dei musicisti cantava. Il mio gruppo era composto da sei musicisti e tutti e sei cantavano. Avevamo scelto un nome americano: THE ACES. Sapevo che voleva dire GLI ASSI, ma, siccome nessuno riusciva a pronunciarlo, cambiammo presto ne I VISCONTI.

Il nome definitivo divenne poi i “BARRITTAS” (dal tipico copricapo sardo) e così è ancora ricordato con nostalgia da un pubblico di sardi emigrati all’estero e dispersi in tutto il mondo.

Cagliari, come tutte le cittadine di provincia del meridione d’Italia non offriva niente. Aveva tutti i difetti di Roma senza averne nemmeno un pregio. Il ritornello comune nei pochi luoghi d’incontro dei giovani era: “qui non c’è niente; noi giovani non sappiamo cosa fare; lo Stato non pensa a noi giovani”. Ma io cercavo di ribellarmi al fatalismo, di darmi da fare.

Ogni sabato pomeriggio prendevo regolarmente il treno per raggiungere i miei cugini del gruppo ed assistere alle prove. Dormivo dalla nonna materna e ripartivo la domenica notte. scrivevo le canzoni, impostavo e presentavo gli spettacoli, procuravo le serate. Ero l’autore, il leader, l’impresario ed il produttore del gruppo. Facevo tutto, insomma, salvo che suonare e cantare.

Ma nonostante avessi iniziato a sfogare le mie velleità artistiche col complesso mi sentivo ancora insoddisfatto… Io volevo sbranarla la vita, mica leccarla. Un sabato, decisi di non andare a Oristano. Avevo litigato con la mia ragazzina fissa che avevo laggiù e volevo farla soffrire un po’. Non telefonai nemmeno al telefono pubblico di Santa Giusta per avvisare i miei cugini. Non andai e basta. Il giorno dopo, come tutte le domeniche mattina, mio padre portò me e tutta la famiglia al canale maleolente, a due passi da casa, dove teneva ormeggiata una piccola barca a remi. Lì aveva pure un casotto abusivo, come tutte le famiglie del circondario, dove riponeva i remi, le reti, una vecchia sedia a sdraio e altre cianfrusaglie.

Mia madre aveva portato i soliti pomodori ripieni di riso, qualche fetta di mortadella e un bel fiasco di vino. Per noi ragazzi c’era dell’acqua in un bidoncino di plastica e una torta “di pane”. Mia madre era specialista nel fare torte con qualsiasi avanzo e questo va a suo merito, ma noi ragazzi avevamo gli occhi bassi e la testa in pasticceria. Credo di aver conosciuto la prima pattumiera a casa di un mio amico di Milano, da noi non si buttava via niente.

Mentre si pranzava, mio padre ascoltava alla radiolina portatile una commedia dialettale trasmessa dalla Rai regionale.

I miei fratellini erano affaccendati nelle loro varie specialità: litigi con spinte, sassi nell’acqua, inseguimento di granchi, mentre mio padre e mia madre li zittivano, interessati all’a­scol­to, e ridevano di quando in quando.

Io mi rendevo conto che gli attori non sapevano recitare, e che neppure riuscivano a farmi ridere. Le barzellette che inventavo per «La Settimana Enigmistica», dopo tutto, erano molto più divertenti. Ebbi come una folgorazione: perché solo canzoni e storielle? Avrei scritto anche commedie.

Quella sera stessa, scrissi la mia prima commedia radiofonica. Mentre i miei guardavano alla televisione Ubaldo Lay, o qualche altra roba del genere, mi rinchiusi in camera a studiare. La mia “cameretta” era stata ricavata in un piccolo spazio di due metri per due, proprio all’ingresso di casa, davanti alla porta, chiusa alla vista da un pezzo di compensato scorrevole. Una brandina, due mensole, una vecchia scrivania e due pomelli di legno alla parete per il mio guardaroba erano l’arredamento del mio covo. Posizionai delicatamente la mia Lettera 22 e, pieno di elettricità, cominciai a pensare.

Non avevo un’idea precisa: avevo però un sacco di fogli bianchi e la carta carbone.

Qualche mese prima, avevo ricopiato per conto di mio padre gli elenchi di tutto il personale ferroviario della Sardegna, con mansioni, grado e dati anagrafici. Come unico guadagno mi era rimasta una buona scorta di carta. Le ventimila lire promesse erano servite per vestiario.

Ripensai alla commedia sentita nel pomeriggio: non c’era una vera e propria trama, i personaggi non erano ben caratterizzati e tutti erano ugualmente sovrapponibili, e gli attori si limitavano a storpiare le parole e la voce, come si fa da bambini per prendere in giro o scimmiottare qualcuno. Le cose che ancora oggi capita di vedere e sentire da un Pingitore, insomma. Mentre inserivo i fogli nel rullo, ebbi l’idea! E le dita iniziarono a pestare concitatamente sulla tastiera.

Non ricordo nemmeno più il mio primo lavoro. Ricordo bene, però, che lessi le venti cartelle ai miei amici e alla mia insegnante di lettere. Tutti si sbellicarono dalle risate. Come mia abitudine, interpretai da solo tutti i personaggi. E, come in tutti i miei lavori successivi, c’era pur sempre una storia, un finale, c’erano i protagonisti e i caratteri. Un lavoro serio, per quei tempi. Così, prima che finisse l’anno scolastico, una domenica mattina presi il coraggio a quattro mani, mi feci bello e mi presentai ai cancelli della Rai di Cagliari.

A quei tempi, le sedi Rai non erano, come adesso, bunker sorvegliati da guardie armate. Incontrai subito uno della redazione giornalistica. Era un botolo senza collo e dalle guance cadenti. Parlava guardando per terra e portava spesse lenti da vista e una cravatta larga come una tovaglia. Disse che mi conosceva di fama, per via del complesso musicale, e che mi cercava per un’intervista. Se ne sarebbe parlato alla radio!

Costui, anziano e adesso nel mondo dei più, saputo il motivo della mia visita, mi pilotò per i corridoi fino al piccolo studio dove la compagnia amatoriale di comici stava terminando la registrazione della commedia che sarebbe andata in onda la domenica successiva. Eravamo al «rompete le righe» e venni presentato all’anziano regista, Lino Girau. Era un signore alto, dall’aria compita e intelligente. Si trattenne qualche minuto con me, poi, presa la cartella coi miei lavori, mi diede un vago appuntamento di lì a una quindicina di giorni e se ne andò. Circa due mesi dopo, le mie commedie venivano rappresentate alla radio. Gratis. Non sapevo neppure cosa fosse la SIAE!

Fu così che, nei primi anni Sessanta, cominciai a collaborare con la Rai.

Nel frattempo, anche il mio gruppo conobbe i primi successi. Solo pochi mesi prima, quando nel nostro bar-ritrovo Oristanese mi lasciavo andare e dichiaravo che presto avremmo inciso un disco, diventavo facile preda dei sarcasmi di tutti i nostri conoscenti. I perdigiorno del bar di Ibba, tutti di cinque-dieci anni più vecchi di me, mi apostrofavano ormai da lontano; appena spuntavo dall’angolo di corso Umberto, loro stravaccati sulle sedie (erano le uniche cose che consumavano…), si sbracciavano e attaccavano: “O Lucio! E allora? Quando lo sentiamo il vostro disco nel juke box? Ahahah!” Io, giovane figlio di puttana, stavo al gioco e mi univo al coro delle risatine. Erano da poco esplosi i Beatles anche in Italia e noi eravamo presto diventati i Beatles per la Sardegna. Folle scalmanate ai nostri spettacoli, ragazzine impazzite, carabinieri che ci scortavano quando andavamo a cambiarci in qualche casa ospitale nei pressi della piazza, e da lì fino al palco. Avevamo iniziato a fare le prime seratine alle sagre patronali, viaggiando in sette dentro la Taunus familiare di un venditore di pesce, con tutti i pochi strumenti e i piccoli amplificatori artigianali sul portapacchi. Arrivavamo sul posto puzzolenti di pesce. Per fortuna, appena scesi dalla Taunus, venivamo subito investiti dal fumo delle decine di bancarelle che arrostivano i soliti maialetti e le salsicce… Altro che Chanel o Cappucci for men! La cosa che mi piaceva di più, oltre all’aria di festa e al fatto che avrei potuto conoscere nuove ragazze, era quell’esplosione di colori dei costumi tipici (in Sardegna ogni paese ha il proprio costume tradizionale e i costumi delle nostre donne sono i più belli e ricchi del mondo). E mi piaceva il suono allegro delle launeddas (il più antico e difficile strumento a fiato: come la cornamusa ha tre canne, ma la camera d’aria sta nelle guance. I suonatori devono avere polmoni d’acciaio, perché inspirano continuamente dal naso per tenere le guance sempre ben gonfie d’aria. E suonano per ore ed ore!). Oltre alle launeddas, l’aria era invasa dalla musica trillante degli organetti e delle fisarmoniche. In tutti i paesini era un problema trovare qualche anima buona che ci permettesse di attingere energia elettrica per la nostra amplificazione, direttamente dalla sua casa. Toccava a me fare il simpatico e riuscivo sempre a trovare una presa per la nostra prolunga. Elettrici anche noi, spesso ci esibivamo sul carrello di qualche trattore o sul rimorchio di un vecchio camioncino, “abbellito” da canne fresche e frasche di alloro. Ma quelli erano stati gli inizi. Ormai si viaggiava in un comodo pullmino e venivamo seguiti da un furgone con gli strumenti e due ragazzi che scaricavano e caricavano. Arrivati su piazza, trovavamo già dei palcoscenici attrezzati e confortevoli, spesso coperti: come pretendevo per contratto. Il nostro primo disco era in tutti i juke box dell’isola e della penisola e i coatti del bar di Ibba non mi prendevano più per il culo. Anzi, si erano fatti protettivi e servizievoli; andavano spesso a comprarmi le sigarette o si prestavano ad accompagnarmi con una delle loro vecchie seicento a trovare qualcuna delle mie ammiratrici nei paesi del circondario. Io pomiciavo e loro fumavano in macchina in attesa del mio ritorno.

Abbandonai la scuola per fare l’artista a tempo pieno, ripiegando talvolta su più umili mestieri: quando i guadagni artistici non erano sufficienti a mantenermi. Da casa mia, mai ricevuta una lira! Giusto vitto e alloggio, fino a che mio padre, sempre lui, mi mise a scegliere: «O studi o lavori». La mia avventura coi Barrittas stava per terminare. Un giorno, accompagnato da una mia amichetta, arrivai in sala prove e rimasi stupito dal silenzio. Niente rullate della batteria, niente chitarre. Ma rimasi ancora più stupito quando, una volta dentro, li trovai tutti in riunione. Facce lunghe come cavalli ed occhi bassi. In breve, erano giunti a questa decisione: siccome io non cantavo né suonavo, se volevo restare con loro, non si sarebbe più diviso in sette parti ma “per scrivere le canzoni, presentare, fare i contratti e seguirci discograficamente, noi ti diamo dieci mila lire per ogni serata”. Ah, sì? Guardai miei cugini, ma loro guardavano per aria. Bene, risposi, allora sapete che c’è? Se VOI volete rimanere con me, IO vi do diecimila a testa per serata. Altrimenti esco da qui, trovo quattro o cinque ragazzi in gamba e voi avete finito di incidere dischi e di fare serate. Sbattei la porta e me ne andai ai giardinetti dietro l’ospedale, a fare l’amore con la mia bella.

L’impresa di trovare dei musicisti all’altezza si rivelò più difficile del previsto. Stavo ormai senza una lira e dovevo prendere una decisione. Avevo quasi diciassette anni. Mi iscrissi così alla Scuola Alberghiera e, per un anno e mezzo, studiai, vissi e lavorai ad Assisi. Dopo Assisi, girovagai per qualche mese su e giù per l’Italia, al seguito dei miei nuovi amori.

— Di dove sei?

— Di Novi Ligure.

— Bene. Vengo con te.

E partivo.

Erano tutte belle ragazzine in vacanza, con famiglia al seguito. Nasceva il filarino ed io le seguivo. Solita prassi: parcheggiavo la mia unica valigia di autentico cartone italiano al deposito bagagli della stazione e mi facevo un giro degli alberghi o dei ristoranti della zona. Generalmente, in giornata, trovavo da lavorare, da mangiare e da dormire. E stavo a due passi del mio nuovo amore. Di notte, però, buttavo giù testi o spunti per canzoni. Fino a che questa vita non mi stufò. Avevo un sacco di materiale pronto e una grande nostalgia della mia terra. Mi mancavano parecchio anche il palcoscenico e gli applausi del pubblico.  Così presi la decisione di tornare in Sardegna. Ma non da mio padre, che, persa la speranza di un figlio geometra, avrebbe volentieri ripiegato su un figlio cameriere...


 

III

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Mi piazzai

Avevo ancora la macchina da trentacinque dollari.

I cavalli andavano forte. Anche noi andavamo forte.

                                                                                              C.Bukowski (Factotum)

 

 

Mi piazzai a Santa Giusta, a casa della nonna, e ripresi i contatti coi miei cugini. Anche a loro la vita piatta e senza prospettive coi Barrittas ormai stava stretta. Io avevo con me la sempiterna Olivetti lettera 22 ed ero ben deciso a riprendere a pieno ritmo il lavoro artistico col complesso. Questa volta, sul serio. Agli esordi, con la bici della zia Pina avevo girato per il circondario di Oristano, convincendo i parroci (erano loro i veri padroni nei piccoli paesi) a concedere una serata «dedicata ai giovani», in occasione di qualcuna delle tante sagre paesane.

Agli esordi, ci eravamo esibiti per qualche aranciata o per qualche forma di pecorino. Poi erano arrivati i primi soldini, anche contratti da 150 mila lire. Ma ormai, eravamo dei professionisti. Dovevamo pretendere di più. Sempre agli esordi, mi ero inventato addirittura, sempre con la mia Lettera 22, un modello di contrattino in due copie!

Ma ora le cose stavano diversamente. Ora avevo dei sogni e dei progetti molto più grandi di Santa Giusta. Più grandi di tutta la Sardegna. Convinti i miei cugini a “metterci in proprio” e trovati un batterista e un tastierista all’altezza della maestria di Tonietto (bassista, cantante, compositore e pluristrumentista) e Francesco (uno dei migliori chitarristi italiani, compositore e cantante), avevo fatto stampare in tipografia dei signori contratti intestati , copiati da quelli dei grossi impresari.  Proposi anche il nome: SALIS & SALIS”. Accettato. Lavorammo alacremente e componemmo una ventina di ottimi brani. Vino e salsicce arrosto duravano poco. Mia nonna era dai miei a Cagliari e noi, padroni del campo, facemmo fuori le sue magre scorte alimentari, ripromettendoci di ripristinarle prima del suo ritorno. Eravamo in uno stato di grazia. Componemmo addirittura una suite pop-jazz di 25 minuti che intitolai “La Strega” e cominciava così: “Giocavo insieme a lei, sopra un letto non mio. Giocavo al vieni tu, che presto vengo anch’io…” Era improponibile per quei tempi, ma venne accolta trionfalmente, pochi anni dopo, al festival di Villa Panphili a Roma ed al Festival di Montreaux, da un folto pubblico di buongustai e da signori che si chiamavano Frank Zappa, Jean Luc Ponty e Rahvji Shankhar. Finalmente pronti, prendemmo una vecchia casa in affitto, quattromila al mese, per farne la nostra sala prove e i ragazzi cominciarono a darci dentro con scrupolo e rinato entusiasmo. Dal canto mio, chiariti i ruoli e avuta carta bianca, presi il volo per Milano. Ruppi le palle a tutti i discografici. Esausto, una sera dormii persino al Piper, ospite di Leo Wester, padrone delle notti milanesi. “Stai pure qui, mi disse, domani ci sarà un vernissage ufficiale per il nuovo disco dei Rockes e ci saranno tutti.”

Così feci. Dormii sullo stesso divano dove aveva fatto un pisolo, pochi mesi prima, John Lennon.

La sera dopo conobbi un mare di gente, ma mi fermai a bere con un pazzo che si chiamava Arnaldo Morosi. Un marchigiano tarchiato e deciso, con qualche anno più di me, che faceva l’amministratore alla Belldisc Italiana. Due giorni dopo, avevo un contratto discografico triennale per i SALIS & SALIS, cinquantamila lire d’anticipo e un biglietto aereo per Cagliari. Coi Barrittas eravamo specializzati in pop-rock etnico. Ora, eravamo pronti per il grande balzo. Il salto di categoria. La nostra etichetta era la Belldisc, di Antonio Casetta. Cominciammo a fare i primi dischi, con canzoni nostre in italiano. Poi altri, poi arrivarono i premi della critica e un mare di «passaggi» in radio e in televisione. Scrissi il primo album-comcept al mondo, allora si usava fare gli LP con tutti brani vecchi e un pezzo nuovo che trainava. Il mio sogno era sempre stato quello di fare un LP come un film. L’idea piacque molto ai giornalisti, meno a Casetta. Così lo produssi pagando io tutte le spese. Infine, ne fu entusiasta anche Casetta e mi promise di rimborsarmi… L’album uscì tre anni prima di Tommy degli Who. Si chiamava “Sa vida ita est” (Cos’è la vita) e conteneva tredici brani originali sulla vita di un uomo, dalla nascita alla morte. La Rai ne censurò quattro: per oltraggio al pudore, vilipendio alle forze armate e altre coglionate del genere. Auguri e La ragazzina del cortile accanto, invece, venivano programmati più volte al giorno a Supersonic e Alto Gradimento, soprattutto. Cantanti importanti, anche americani: Brenton Wood, 5th Dimension, Bing Crosby, incidevano canzoni nostre. Brenton era l’unico cantante afroamericano con una vocina esile esile. Aveva appena spopolato in tutte le hit-parades del mondo con un brano che si chiamava “Gimme a little sign”. Casetta lo invitò in Italia per un giro promozionale, era primo in classifica anche da noi, e per partecipare al Festival di Sanremo. Io avevo mandato tre canzoni nostre alla giuria selezionatrice del festival e, dopo tante scremature, i brani selezionati erano rimasti una cinquantina, poi trenta… Beh, le nostre canzoni erano sempre le prime tre in assoluto nel gradimento della commissione. Io ero al settimo cielo ed i ragazzi pure. Doccia fredda: qualcuno degli organizzatori chiese a Casetta sei milioni a brano, come tangente, per partecipare alla manifestazione. Lui rifiutò (perché non li aveva) e la nostra partecipazione al Festival, almeno come autori, sfumò. Quando l’organizzatore del Festival decise di scartare le mie tre canzoni, Daniele Prevignano Jonio, famoso giornalista e vicedirettore del Corriere d’informazione, nonché presidente della commissione selezionatrice, scaraventò la sua sedia lontano e si dimise. Brenton arrivò in Italia e ci fummo subito simpatici. Avrebbe dovuto interpretare una canzone in coppia con Anna Identici (IL TRENO, se non ricordo male). Fece il festival suo malgrado con quel pezzo che non gli piaceva assolutamente. Però sentì una canzone mia, parole e musica: “Il tuo ritorno”, se ne innamorò e la incise sia in inglese che in italiano. Lasciando perdere il treno… E pensare che la musica la tirò giù Francesco, ridendo a crepapelle, dal mio modo di cantare la Marcia Nuziale di nonsochi… Sono sempre stato cintura nera di stonature! Per i 5th Dimension le cose andarono diversamente. Loro facevano parte del Clan Sinatra ed erano reduci da un planetario successo con “AQUARIUS. Let sunshine in”. Avevano sentito il mio brano inciso da Brenton ad una radio californiana e contattarono il mio editore per averne uno anche loro. Io, stupido, decisi di mandare in California un pezzo che avevamo scritto per Caterina Caselli: “Chissà se tornerà”, a patto che il quartetto americano lo incidesse in italiano. Così fu fatto, ma il disco non ebbe grande successo.

A Bing Crosby, re della discografia mondiale da decenni, un pezzo nostro fu portato da un matto che si firmava “The 101 string”. Non ricordo il suo nome. Ricordo quest’ometto buffo, italoamericano, che era diventato ricchissimo incidendo a casa sua, in Los Angeles, interi LP di musiche d’ascolto e di sottofondo. Aveva uno studiolo a 16 piste e sovrapponeva chitarre, mandolini, clavicembali e quant’altro. Alla fine, il disco sembrava eseguito da una grande orchestra, invece faceva tutto da solo!

E qui il colpo di scena…

Io andavo e venivo da Milano. La mia base però era a S.Giusta. Le tournèe col mio gruppo duravano tutto l’anno, tante erano le richieste per serate. Avevo una quantità impressionante di fidanzate. Ero ricco, bello, giovane e forte. Ero invincibile. Mio padre guadagnava 75 mila lire al mese, io quarantamila al giorno. Tutti i giorni! Disegnavo i miei abiti, che mi facevo fare rigorosamente su misura da Cabixetta (Lucertola), il più bravo sarto di Oristano. Avevo anche una camiciaia di fiducia. E una ragazza fissa ad Oristano che era per me, ma non solo per me, la più bella ragazza della Sardegna. E con lei andai un giorno nella nostra casa-prove di S.Giusta, dove mi ero ricavato una stanza da letto dannunziana. Sorpresa!

I miei cugini e gli altri due musicisti erano… in riunione. Avete già capito, vero? Esatto: stesso discorso di qualche anno prima. “Siccome tu non canti e non suoni…”

Ma ora le cose stavano diversamente. Arnaldo Morosi, diventato Amministratore Unico della Bluebell Records e della Belldisc Italiana, mi aggrediva bonariamente ogni volta che andavo a Milano e mi telefonava quasi ogni settimana al posto pubblico di S.Giusta. Tema:

“Ma quando cazzo mi dai retta e te ne vieni a lavorare con me?”

La storia durava da più di un anno. Lui voleva fortissimamente che andassi a fare l’assistente del direttore artistico. “Hai fiuto, mi ripeteva, hai talento, ci sai fare e sei un grande autore. Che cazzo ci fai in quel paese desolato della jungla?” Che avevo fiuto era possibile, visto che avevo segnalato e fatto scritturare un ragazzo di Genova che poi... Avevo sentito un suo 45gg in una bancarella della Fiera di Senigallia, a Milano, e l’avevo comprato per cinquanta lire. Il disco si intitolava “Carlo Martello torna dalla battaglia di Poitièrs”, autori Paolo Villaggio-Fabrizio De Andrè. Sì, quel giovane, strano cantante era Fabrizio.

“ Siccome tu non canti e non suoni…”

Chiamai Morosi e mi feci prenotare un albergo. La settimana dopo prendevo possesso del mio ufficio in via Turati. 250.000 al mese. Non erano tanti soldi, rispetto a quello che guadagnavo in Sardegna, ma c’erano da conteggiare i parecchi milioni che cominciavano ad arrivare dai diritti d’autore. Eppoi, mio padre guadagnava molto ma molto meno. E i miei coetanei geometri erano tutti disoccupati. Ero a Milano.

Nel giro di 20 giorni, mi feci crescere i baffi, mi fidanzai con una bellissima donna sposata che aveva cinque anni più di me e trovai un bell’appartamento non troppo distante dal centro. Il contratto d’affitto lo firmò lei, visto che ero ancora minorenne, ed ebbi così la mia prima casa personale. Ma cominciai anche a fare casino in tutte le interviste e ai convegni politici ai quali partecipavo, per promuovere un movimento che spingesse il governo a promulgare una legge per portare la maggiore età ai diciotto anni. Allora si diventava maggiorenni a ventuno. Tre mesi dopo, avevo un harem di una quindicina di ragazze provenienti da tutto il mondo. Tre erano fisse e interagivano sessualmente anche fra loro, le altre cambiavano ogni settimana circa; ma sempre rigorosamente scelte dalle mie tre Grazie. Eravamo in piena  era di “libero amore” e il mio accogliente indirizzo milanese, grazie a un tacito e velocissimo tam tam, figurava nelle rubriche telefoniche di centinaia di belle figliole sparse per il pianete e desiderose di visitare l’Italia delle meraviglie. Non avevo ancora 21 anni, ero ricco, ero bello, ero forte e invincibile.

A ventidue anni e mezzo ero un coglione che sperperava tutto quello che guadagnava con la velocità di Umilio Fede al casinò di S.Vincent; un imbecille che aveva dato il benservito all’harem. Ero appena stato nominato Direttore Artistico della Belldisc, mi ero trasferito in un immenso appartamento col parquet e due terrazze in corso Buenos Ayres e mi ero sposato con una ragazza di Cagliari che avevo visto, sì e no, tre o quattro volte. E sempre vestita! Ma ero anche un pezzo grosso al Cantagiro che partiva nel 1969 da Cuneo, lavoravo con l’astro nascente Fabrizio De Andrè e dirigevo una casa discografica a Milano. Ero ancora invincibile.

Inutile dire che, da bravo coglionazzo sentimentale, avevo imposto i miei cugini traditori a quel Cantagiro. Il nostro pezzo era il più bello della stagione. Lucio Battisti si alzava alle nove del mattino e si piazzava al pianoforte della hall dell’albergo di Cuneo e intonava il nostro pezzo “Manchi solo tu”. La sera, finite le prove, Gabriella Ferri, Massimo Ranieri, e altri cantanti famosi presenti, cantavano il brano davanti al caminetto. Casetta, il nostro editore e discografico, non aveva speso una lira in promozione. Tutti i cantanti, anche i più scarsi e sconosciuti, avevano Cuneo invasa da striscioni, manifesti e sagome in cartone a grandezza naturale. I Salis & Salis nemmeno uno straccio di cartolina promozionale. Cominciai a farmi sentire e minacciavo per telefono di abbandonare la manifestazione.

Antonio Casetta era un personaggio straordinario. Quando aveva la buona. Sui cinquantacinque. Basso e con un po’ di pancetta, baffetti rossicci e capelli scarsi. Vestiva alla texana ed aveva sempre gli stivaletti istoriati sulla scrivania. Guardava tutti sottecchi, con uno sguardo furbetto  e gli occhietti ironici. Non aveva la erre. Parlava come l’ex presidente Scalfaro e rideva continuamente sotto i  baffi. La leggenda lo voleva marinaio su una baleniera (dove aveva imparato l’inglese). Appena sbarcato, il suo amico Ansoldi, futuro suocero di Iva Zanicchi e noto discografico, decise di sfruttare la sua conoscenza dell’inglese e lo spedì in USA; gli diede alcuni indirizzi di L.A. e un forte assegno per acquistare i diritti di sub edizione di alcuni cantanti americani. Lui aveva sì acquistato i diritti, ma per conto di sé medesimo. Era tornato a Milano ed aveva aperto la sua etichetta discografica ed editoriale. Non ci ho mai creduto al 100%, però…  Casetta aveva un grande rispetto per me e tra noi c’era molto feeling. Ci davamo del lei. Spesso mi portava a pranzo Alle Assi: un locale da 60 mila a cranio (allora!), dove si mangiava malissimo però avevano dell’ottimo bianco del Reno. Io prendevo sempre un piatto di formaggi o mozzarella e insalata, e due bottiglie di vino. Lui beveva appena un bicchiere e partiva subito; mi stuzzicava e io facevo dei veri e propri spettacoli comici solo per lui. Finiva regolarmente sotto il tavolo e, ogni volta, mi prometteva che avrebbe finanziato un mio spettacolo comico. Al ritorno, prendeva una specie di circonvallazione e la percorreva tutta in corsia di sorpasso a velocità folle. Si divertiva come un bambino a stringere le auto superate col suo immenso macchinone americano. Si fingeva distratto e ghignava come un matto. Quando non aveva la buona o aveva torto era intrattabile e irascibile. Come tutti i piccoletti. Quella volta gli parlai a muso duro e lui mi rispose a tono. La telefonata si chiuse in parità. Ma per me equivaleva ad una mezza sconfitta.

Miei cugini erano già appagati per il solo fatto di essere lì. Autografi a nastro (ma le ragazzine chiedevano l’autografo anche agli autisti!) e gnocca a volontà. Io ero sposato da un mese, ma l’indole era quella dell’emiro. Un pomeriggio, passeggiavo con Tonietto, il mio cugino dalla folta chioma rossa che noi chiamavamo Biondo, venimmo attratti in una tintoria e violentati da mezza dozzina di ragazze infoiate.  Mi ero organizzato anche con una giovane cantante siciliana, molto carina, che stava a due porte dalla mia stanza. La sera del fattaccio, però, venni preceduto dalla sua produttrice (anche lei ex cantante di nome). S’imbucò come Mata Hari nella stanza del dolciume ed io restai imbambolato nel corridoio, con l’uccello a mezz’asta. Il giorno dopo, la ragazzina sicula venne ricoverata par farsi ricucire un capezzolo e io mi gettai su una bella barista dell’hotel. Di pomeriggio. Di sera, invece, mi raggiunse una donna dell’ufficio stampa, bellissima e porca, con la quale avevamo già avuto modo di incrociare le mutande. Quella sera stessa mi raggiunse la mia neomoglie e furono fulmini e saette! La mattina dopo, telefonata di fuoco con Casetta e decisione immediata: torno a Milano. Non ci stavo a fare il numeretto. Miei cugini, come al solito, decisero di non seguirmi nel gesto di protesta e rimasero pateticamente a Cuneo. Le prove erano finite e la manifestazione sarebbe partita ufficialmente. Il Cantagiro terminò un mese dopo a Recoaro Terme e loro arrivarono penultimi nella graduatoria. Cazzo! Col pezzo più bello e loro arrivano penultimi! Nemmeno ultimi! Che almeno uno si ricorda… La chicca: restarono per 15 giorni prigionieri in un albergo di Recoaro! Erano senza una lira e l’albergatore non permetteva loro di lasciare la stanza. Dovetti correre là, firmare un assegno e riscattarli. Diventavo sempre più importante. Nelle vesti di più giovane direttore artistico del mondo, ero avvantaggiato: riuscivo a carpire per due lire contratti di sub edizione per l’Italia di tutti i gruppi pop-rock e di tutti i cantanti internazionali, che in breve tempo diventavano dei numeri uno. I miei omologhi avevano dai cinquant’anni in su e schifavano quel “rumore”. Loro erano per Al Bano o Claudio Villa. Quel “rumore” lo fanno ancora oggi e dominava e domina le classifiche di mezzo mondo. I fatti: divenni direttore della Belldisc con un catalogo di sei nomi inesistenti (addirittura il cognato di Nicola di Bari!); ora avevamo un catalogo di quaranta pagine, fitte fitte di NOMI. Tra gli altri miei exploit fortunati, c’era da annoverare il rilancio di Santo & Johnny. Il duo, un tempo popolarissimo, era nel dimenticatoio, tanto che aveva firmato un’esclusiva mondiale con Casetta. Più disperati di così… Grazie alla simpatia che nutriva per me un pezzo grosso dell’éntourage dei Beatles, mi venne “regalato” un brano inedito che Paul aveva composto per una sua fidanzatina dell’epoca, Mary Hopkins. Il brano si chiamava Sparrow (passerotto) e l’intesa era che avrei potuto sfruttarlo per sei mesi, in tutto il mondo, a patto di farne una versione solo suonata. Il pezzo era un lentaccio… quale migliore occasione per le chitarre di Santo & Johnny? Lo incisero e vendettero quasi sei milioni di dischi. In quel periodo venne a trovarmi un ragazzo romano pieno di talento. Diventammo subito amici e, nonostante non fossi riuscito a convincere Casetta a fargli un contratto, lui veniva spesso a Milano per stare qualche ora con me. Sognava di avermi come produttore. Io sognavo di produrlo. Era intelligentissimo e con un forte senso dell’umorismo, molto originale e spiazzante come autore. Il suo nome era Rino Gaetano. Quando finalmente ebbe il contratto discografico con Vincenzo Micocci della RCA, mi chiamò impazzito dalla gioia e io corsi a Roma per festeggiare insieme. Mi venne a prendere con la sua nuovissima Citroen e stemmo in un bar all’aperto a bere, chiacchierare, e ad ammirare la vettura nuova di pacca parcheggiata a cinque metri da noi.

 D’accordo con Morosi, mi inventai una manifestazione a Pesaro che aveva lo scopo di scoprire nuovi talenti. A Pesaro ci raggiunse Fabrizio De Andrè, in crisi con la moglie e molto giù di corda. Dopo lo spettacolo, Faber, Arnaldo ed io, andammo a bere qualcosa al bar del night dell’albergo. Faber era seccatissimo perché, nonostante avesse venduto quasi seicentomila copie del suo LP Tutti morimmo a stento, nessuno se lo era filato al teatro. Di malumore, prese a bere e a dare di matto. A un certo punto si mise a vociare contro il complesso che aveva attaccato a suonare La canzone di Marinella. Voleva lanciare la bottiglia di champagne contro il palchetto, perché i musicisti avevano sbagliato un accordo. Dovetti portarlo nella sua camera di peso.

L’ultima volta che ho visto Fabrizio era il 1989, credo. Ero intento a mangiare una pizzetta al bar dell’aeroporto di Linate. Mi arrivarono addosso un impermeabile e un urlo gioioso: “O fill’e bagassa! Cappitto mi hai?!” Era lui, euforico, con una enorme panza davanti e una splendida Dori Ghezzi al fianco. Ci abbracciammo come ragazzini. Parlammo per un po’, poi mi dovetti imbarcare a malincuore sull’ultimo aereo per Cagliari. Dieci minuti dopo, loro avrebbero preso l’aereo per Olbia. Mi invitarono a disossare un maialetto da loro, all’Agnata. Non abbiamo mai avuto occasione. Peccato.

 

Avevo sempre una vera passione per lo scrivere. Quando lavoravo col complesso, dovevo preparare i testi comici per gli spettacoli (c’erano poche canzoni in repertorio e si dovevano «tirare» almeno tre ore: toccava a me, tra un brano e l’altro, intrattenere e far ridere il pubblico). Poi  avevo collaborato con la Rai regionale per la Sardegna.

Avevo fatto anche quello che oggi si chiama il ghost-writer, ma allora si diceva più brutalmente il negro: scrivevo progetti di programmi, testi, copioni; roba che altri firmavano incassando i diritti d’autore. Ero ancora giovane, e il solo fatto di lavorare in radio mi riempiva d’entusiasmo. Godevo già di una certa notorietà come autore di canzoni di un certo successo e, in quella veste, fui più volte ospite in varie trasmissioni musicali e giornalistiche.

A Milano mi organizzai e presi a scrivere dei redazionali satirici per il settimanale IL MILANESE. Inoltre, scrivevo gag e battute per i Brutos e programmi per Radio Capo d’Istria e Radio Monteceneri, firmati col mio amico giornalista Rodolfo Grassi, nonché sketch comici per alcune riviste con spogliarello di classe.

Nell’ambiente musicale mi ero fatto un certo nome, ma non mi bastava più. La Ricordi mi aveva proposto di fare il vice al padre di Mogol, Mariano Rapetti, vecchio direttore prossimo alla pensione. “Tra sei mesi lui molla e tu prendi il suo posto” mi avevano detto. Ma non era quello che volevo. Così declinai l’invito. Il mio strano matrimonio in realtà non esisteva. Non mi sentivo sposato. Sì, con quella che si riteneva mia moglie, avevo procreato tre figli in tre anni, ma noi eravamo due ragazzini estranei. Completamente diversi in tutto. Lei all’antica, casalinga, musona, odiava uscire, non voleva amici o conoscenti in mezzo ai piedi. Io estroverso, casinista, capotribù, patriarca, vandalo di cuoricini femminili, dimenticavo spesso il mio cuore in qualche paio di mutandine nuove, assetato di curiosità le più disparate. Ero in un altro mondo. Non ero più invincibile? Un giorno, Casetta, non trovandomi nel mio lussuoso ufficio di fianco al suo, attraversa il pianerottolo ed entra nell’immenso appartamento che serviva da uffici per la truppa. E mi affronta davanti a quasi tutto il personale: “Lei mi ha rotto i coglioni, Salis. Viene in ufficio quando cazzo vuole, si scopa tutte le impiegate e non ha nessun rispetto per la forma che dovrebbe imporle la sua posizione. Da domani, mi fa il sacrosanto piacere di farsi dare del LEI e di timbrare il cartellino alle nove. E se ne stia nel suo ufficio, anziché stare qui a dar fastidio alle segretarie. Intesi?” ‘azz! E pensare che mi ero anche fatto crescere la barbetta incolta, per sembrare più vecchio e dare lustro alla mia posizione… Lo salutai e per qualche mese lavorai come free lance. Ma Milano non  mi piaceva più. Nel 1973, conosciuto bene l’ambiente e  nell’ambiente, con un nome più che rispettabile, decisi di mettermi in proprio e, sentendo la mancanza del mio mare, pensai di aprire a Cagliari una piccola etichetta discografica ed editoriale. Me ne tornai in Sardegna. Soldi ne avevo, e tanti, ma insufficienti per attrezzare uno studio di registrazione al passo coi tempi. Cercai un socio, e trovai Marcello Mazzella: il rampollo di una famiglia dalla ricchezza dubbia (ma allora non lo sapevo), con tanta passione ma scarsa propensione per la batteria. Io ero allora il suo idolo.

Ospitò me ed i miei cugini presso il villaggio turistico di famiglia (semivuoto), ad Arbatax, per conoscerci meglio e trattare. In quei quindici giorni, col mio cugino Tonietto-Biondo, scrivemmo un intero album: la prima produzione della mia casa discografica! Io ci misi più di cento milioni, il mio «socio» garantì che ne avrebbe investiti più del doppio (mai visti!). Ci recammo dal «suo» notaio e nacque La Strega Record s.r.l.. Lui ne era l’amministratore unico, coi due terzi, io il direttore artistico, con la restante quota.

Prendemmo in affitto l’ultimo piano in un palazzo nel centro di Cagliari e cominciammo a riattarlo. Con i miei soldi (sempre con i miei soldi!) andammo a Milano per trovare un buon arrangia­tore e un distributore per la nostra etichetta. Prenotammo anche una sala d’incisione: la nostra non sarebbe stata pronta che molto più in là, e io volevo lanciare subito l’LP sul mercato. A Milano, Mazzella era un pesce fuor d’acqua e finii naturalmente col fare tutto io. Come distributore trovai la EMI, che non era roba da poco, e il mio amico Dario Baldan Bembo avrebbe curato gli arrangiamenti, per una cifra irrisoria. Trovai anche un ottimo ufficio stampa, Eraldo Di Vita, all’epoca tra i migliori, che mi regalò il lavoro di lancio per poche migliaia di lire. Ma il mio «socio» ebbe comunque modo di lamentarsi:

— Se è un tuo amico, perché lo devi pagare?-

Questo dunque era il livello…

E Mazzella, più tardi, pretese di comandare e, non sapendo  dove mettere le mani, né essendo un’aquila, combinò mille e mille casini. Alle mie rimostranze, fece in modo di buttarmi fuori! Per parecchi mesi mi fece arrivare minacce di morte in modi diversi. Della discussione definitiva, avvenuta nel suo ufficio, ricordo ancora uno dei guardaspalle del padre, con la pistola posata sul grembo. In seguito, grazie a qualche notaio amico, falsificò la mia firma e vendette le mie quote alla sua ex moglie. Mi derubò, insomma. Io partii con una causa, che feci interrompere (sono un fregnone!) quando qualcuno, più forte di suo padre, stanco dei soprusi e delle prepotenze del vecchio Mazzella, non lo fece rapire e giustiziare. Poi gli eventi mi allontanarono dall’Isola e il «socio» finì per cavarsela con la prescrizione del reato. Io persi una somma ingente e un anno della mia vita. Oltre ai mancati guadagni. Costui faceva addirittura uscire i miei dischi senza il mio nome sull’etichetta! E creò un altro marchio in diretta concorrenza con «La Strega» (la Car.Sal.Maz.): utili da una parte, perdite dall’altra. Quando si dice il retaggio!

 

 

Ripresi contatto con la Rai di Cagliari. Il direttore era un certo Marcello Marci. Ogni tanto gli chiedevo se nella sua famiglia fossero tutti marci e lui rispondeva regolarmente: “Certo. E come dovrebbero chiamarsi, secondo lei?” Un’autentica aquila. Era massiccio e camminava coi piedi alle dieci e dieci. Sguardo fisso e attento da civetta, vuoto come le mie tasche di oggi. Un giorno portai un testo dove, a un certo punto, uno dei personaggi avrebbe dovuto esclamare Ohibò. Marci mi convocò: “Che vuol dire?” “Mah… è un’esclamazione…- risposi - Tipo Accidenti!… Cazzo!…” “La radio la sentono anche i bambini.” Fu la sua sentenza, e cancellò Ohibò. Ricordo un altro esempio gustoso inerente a questo genio. Una volta, due speaker del notiziario erano all’opera, in diretta. Io ero in regìa a fumare col fonico e ricordo la notizia: “I coniugi stranieri, a bordo della loro Citroén…” Dove la parola Citroén era stata pronunciata con impeccabile accento francese (allora conoscevo perfettamente il francese). Improvvisamente, la porta dell’ufficio di Marci si spalancò con gran fragore e altrettanto fragorosi si udirono i suoi passi alla carica che, attraversato tutto il corridoio, si fermarono davanti alla porta insonorizzata dello studiolo di messa in onda. “Cìtroen! – sbraitò a microfoni aperti – Si dice Cìtroen!” I due poveracci, che già erano passati ad altre notizie,  cercarono disperatamente e con movimenti convulsi di escludere i microfoni ed ebbero delle flebili rimostranze: “Ma, signor Marci, è una marca francese e in francese si pronuncia…” “Non me ne frega un cazzo! Qui siamo in Italia e si dice Cìtroen!” E tornò nella sua stanza soddisfatto.

Anche nella piccola sede Rai della Sardegna c’era già allora il sentore di un florido magna magna. Me ne resi conto da alcuni episodi: Giampaolo Rabatti, direttore dei programmi ancora nel 1973. Intascava ogni mese un congruo assegno dal famigerato Marcello Mazzella, per trasmettere i dischi della “sua” piccola editrice musicale. Il giochino era cominciato quando eravamo ancora insieme ed io ero fermamente contrario a queste inutili pastette. Anche perché mentre Mazzella pagava per farsi ascoltare in Sardegna, Tonino Ruscitto e Renzo Arbore trasmettevano i miei dischi assolutamente gratis e in tutta Italia: all’interno di programmi top come Supersonic o Bandiera Gialla. Questo Rabatti pretendeva dagli ospiti dei programmi, che venivano da tutta la Sardegna, dei regalini per le figlie e per sé; alle brutte, salsicce, vini, dolci a pacchi ecc. Dagli ospiti del cagliaritano, invece, pretendeva ed otteneva laute cene a scrocco nei ristoranti più cari, per sé e i suoi sodali.

 

 

Nel 1974, finita l’esperienza con Mazzella (fratello del Mazzella del “Comitato antisequestri” che ha furoreggiato in tv per la vicenda Silvia Melis e che ora – come tutti i furbacchioni che hanno conti in sospeso con la giustizia - è addirittura sceso in politica ), senza una lira e con tre bambini da sfamare avevo comunque un buon pubblico di ammiratori.

Così inventai il cabaret sardo, e feci una marea di spettacoli: dieci-quindicimila persone per sera, anche in paesini di mille anime. Un successo enorme, supportato dai quotidiani locali che mi dedicavano intere pagine. Un libro di quegli anni, L’avventura del cabaret, di Roberto Mazzucco, vide nei miei spettacoli una delle cose più nuove che si andavano allora proponendo nel panorama nazionale.

Uno dei miei cavalli di battaglia era: “IL TELEGIORNALE DELLA PERA”, poi divenuto “Striscia la notizia”.

Grazie agli sponsor che mi portavo dietro e ai cachet sempre più rispettabili, ripristinai le mie finanze. Ero l’unico comico sardo: Cossiga era lontano dai suoi exploit e Mariotto Segni ancora un dilettante! Così venni chiamato per fare l’ospite-comico in un importante programma radiofonico nazionale.


                                                               IV

 

Radio anch’io

“In realtà non avevo alcun credo politico.

Si trattava di un modo come un altro per sentirmi sganciato.”

C. Bukowski (Storie di una vita sepolta)

 

 

 

 

Radio anch’io era allora condotto, in diretta, da Nanni Loy. La regìa era di Giorgio Bandini e la segretaria di produzione era Serena Dandini. Il programma andava in onda rigorosamente in diretta. Tre settimane dagli studi di Roma e una settimana da una delle tante sedi Rai dislocate per la penisola. Quella settimana toccava a Cagliari. La sera prima della messa in onda, portai a cena l’organizzatore, Paolo Poma, e gli sottoposi il testo che avevo intenzione di recitare, con forte accento nuorese.

Eccolo:

“Bonasera. Io sono nato a sud di Parigi. Molto a sud… a S.Giusta, vicino a Oristano. Non per vantarmi, ma all’entrata del mio paese c’è pure il cartello “ BENVENUTI A SANTA GIUSTA – ARRIVEDERCI”. Cappitto mi hai? Non è molto grande: alla seconda casa sei già in periferia. A New York ci sono un casino di strade: la Quinta, la Quarantaduesima… da noi c’è soltanto una strada, però ci ha la moquette: gatti, cani, conigli. Una strage! Gli automobilisti non frenano. Al mio paese c’era lo stagno più famoso d’Europa. C’è ancora. Solo che, adesso, oltre allo stagno c’è pure zinco, mercurio, piombo… Vent’anni fa, mio nonno aveva pescato una spigola enorme e l’aveva fatta subito fotografare: soltanto la fotografia pesava quattro chili.  Adesso, ogni volta che peschi un cefalo, lui ti è riconoscente: “Grazie di avermi tirato fuori; un altro po’ e ci rimanevo!” Quand’ero piccolo, le donne andavano a lavare i panni nello stagno. Ci vanno anche oggi e sono pure più contente, perché non si devono portare il detersivo: lo trovano già nell’acqua. Già usato, ma c’è! Cappitto mi hai?! Io al mio paese piantavo patate, cavoli, mais. Soprattutto mais: così, durante la stagione degli incendi, ci avevo già i pop corn belli e pronti! Cappitto mi hai?! Poi, un giorno mi sono stufato di piantare quella roba, ho piantato tutto e sono emigrato in continente. Emigrato… Emi, forse sì, ma grato… non so. La mia terra non mi vuole! Però mi manca. Mi mancano i piatti tipici, come “S’olia a sa sarda” ( L’oliva alla sarda). Si prende un’oliva e si mette dentro una quaglia; poi si prende la quaglia e si mette dentro a una lepre; la lepre si mette dentro una pecora e poi si infila la pecora dentro a un vitellone. A questo punto si scava una grande buca nel terreno, si riveste la buca col mirto, si deposita il vitellone farcito, si ricopre col mirto e quindi si rimette tutta la terra sopra. Fatto questo, si accende un bel fuoco sopra il tumulo e, dopo un paio d'ore, il manicaretto è cotto a puntino; si ricava fuori e si mangia. Questo piatto buonissimo è. Dicono... Eh, sì. Io non l’ho mai assaggiato: perché, ogni volta che abbiamo cercato di farlo con mia mamma e i miei fratelli , una volta messo sotto terra l’animale, andavamo a cercare la legna per il fuoco e quando tornavamo non ci ricordavamo più dove l’avevamo sepolto. Cappitto mi hai?! Però la SIR-degna (Era il boom della SIR di Rovelli e delle sue petrolchimiche. N.d.A.) è bella. Troppo bella. Talmente bella che, quando un turista ricco arriva, ne rimane subito affascinato… estasiato… certe volte persino rapito. Cappitto mi hai?! A tutti i modi, come diceva nonno: <E’ meglio nascere Agnelli, che pastori!> Ad majorca!” Questo era, grosso modo, il pezzo.

    Nun fa ride! disse Poma — Damme retta, fai quarch’artra cosa. Il sardo non funziona. –

Stetti tutta la notte sveglio. Ma come?! Avevo fatto ridere migliaia di turisti con quel monologo! Non funziona?! La mattina dopo evitai Poma e mi produssi nel mio pezzo. I cinque minuti cronometrati divennero quasi dodici, dovuti alle continue interruzioni per le risate convulse e gli applausi a scena aperta di tutti i presenti in studio, Nanni Loy in testa. Feci altre sei o nove puntate. Naturalmente, con altri pezzi. Chiudevo sempre i monologhi con una specie di massima. Qualcuno (Catalano?) ci ha fatto su una carriera, soltanto copiando alcune delle mie chiuse: “Meglio vivere ricchi e sani che poveri e malati”,  “Meglio un uovo oggi e una gallina domani”,  “Meglio essere sviluppati sotto che sottosviluppati”, eccetera.

Visto il mio successo personale, sia come autore che come comico, il produttore e capostruttura Molinari mi invitò a Roma per farmi lavorare stabilmente. Cominciai così a collaborare sempre più frequentemente con la Rai e, nel 1980, mi trasferii definitivamente a Roma. Presi alloggio in un confortevole albergo non lontano dalla sede di via Asiago e iniziai a lavorare per la struttura diretta da Molinari, a Radio Uno.

Uno dei miei primi programmi fu Permette, cavallo? Lì conobbi Michele Guardì, anche lui solo agli inizi ma già molto sponsorizzato, politicamente e… non solo. Mi ci scontrai subito: pretendeva di farmi firmare il modello di dichiarazione SIAE addizionato di parecchie altre firme (compresa la sua): un modo per appropriarsi di diritti non dovuti (la SIAE pagava allora circa 75.000 lire al minuto, per la radio). Mi mandò il funzionario, Carlo Principini, per cercare di convincermi, ma alle mie giuste rimostranze, decise di invitarmi a pranzo e mi portò da Pontisso, nei pressi di viale Mazzini.

L’uomo si presentò come la peggior comparsa di un film di Coppola, non tanto nell’abbigliamento quanto nei gesti: forte accento siculo, occhi sfuggenti, voce-bisbiglio, mano a cucchiaio davanti alle labbra per impedire l’ascolto a vicini di tavolo indiscreti. Si guardava in giro, furtivo, e mi faceva degli strani segnali coi sopraccigli. Prima impressione: un gangster da strapazzo.

In quella occasione mi disse di essere protetto da persone molto importanti, tant’è che, pur senza nessuna esperienza né titoli, gli era appena stato affidato un grosso show televisivo in prima serata per Rai Uno (Al Paradise, credo di ricordare). Anzi, se avevo qualche idea per programmi televisivi, perché non gliela comunicavo?

Si era informato, e sapeva che ero l’unico, tra tutti i collaboratori Rai, a non avere padrini.

Quindi non sarei andato da nessuna parte.

-Stammi vicino e ti faccio ricco — mi disse.

Ingenuamente, gli parlai di alcuni miei progetti, tra i quali La Piazza, mutuato dall’idea del villaggio globale e dal fatto che, già al mio paesino, con l’avvento della tv, la gente non usciva e non si incontrava più, come era accaduto per secoli, nelle piazze. Si trattava, insomma, di ricostruire in studio una tipica piazzetta di paese, con i personaggi tipici che la popolavano e le solite chiacchiere da bar o da cortile. Giochi, ospiti, e un’orchestrina avrebbero arricchito lo show, che andava proposto da un conduttore brillante nei panni della guardia municipale: quello che sa tutto di tutti.

Qualche anno dopo, il mio progetto (che avevo anche proposto a Fuscagni, allora capostruttura di Raiuno, e a Bruno Voglino), pur pasticciato, diventò I fatti vostri, e Guardì, giusto perché sapeva farsi bene i fatti suoi, si mise in tasca le prime due o tre miliardate. I programmi che lui firmava e firma, in realtà li scrive un certo Corciolini: un vecchio di oltre settant’anni. Ma i soldi veri li prendono Guardì e due sue amiche: un’ex parrucchiera-estetista e un’ex segretaria, pare, promosse autrici.

Non credo di aver mai incassato i diritti per quel Permette, cavallo? Guardì sparì e non lo sentii più fino al 1994: quando veniva davanti a casa mia, a Valcanneto-Cerveteri, a prendere la sua amichetta di allora: Adriana Volpe, la valletta di un suo programma, ospite in quei giorni a casa mia. La ragazza, senza arte né parte, aveva sempre avuto dei bei contratti in Rai, e alternava i suoi favori tra il Guardì, appunto, e il motociclista Max Biaggi, che veniva anche lui a prenderla, ma in orari diversi. La mia compagna di allora, non certo bigotta e buona testimone dei fatti, trovò il comportamento della valletta piuttosto esecrabile. Ora, la Volpe, dopo una parentesi TMC2, grazie all’amicizia tra Guardì e Brando Giordani (attuale direttore delle reti di Cecchi Gori), è tornata alla Rai. Con Guardì, naturalmente.

Dal 1980 al 1983, lavorai ancora per Radio Uno: Via Asiago Tenda, Sapore di Salis, Ribalta aperta, Carta bianca, Il guastafeste. Ero pagato pochissimo, perché non avevo padrini politici, mentre emeriti sconosciuti ancora alle prime armi avevano contratti di importo quadruplo, rispetto ai miei… Facevo però ascolti straordinari e potevo lavorare senza censure. E centinaia di monologhi miei, farciti di battute originali e salaci, furono e sono ancora adesso oggetto di saccheggio da parte di tanti «colleghi» poco creativi e scarsamente onesti. Un esempio (una versione datata ’83 del TG della pera, che aggiornavo settimanalmente e recitavo con due voci diverse):

“ 1°- Buonapera. Momenti di crisi e di incertezza travagliano il partito di maggioranza relativa. La DC però non demorde e spera anzi di trovare dei validi sostituti ai vari: Gioia, Ruffini, Crociani, Gava, Leone e Bisaglia.

2°- Una banda di ladri… è penetrata nottetempo nella sede centrale della Banca d’Italia. Pare comunque che siano spariti solo i portafogli dei guardiani: dato che nei forzieri non vi è più nulla, vista l’attuale situazione economica italiana.

1°- Una cacca… Scusate. Un cacciatorpediniere americano ha ospitato l’incontro segreto tra Reagan ed esponenti del mondo arabo. Un comunicato asserisce che sono state prese importanti decisioni, miranti alla pace decisiva  (o eterna… non si capisce bene) per tutti gli abitanti del medio oriente. Si è parlato anche della riduzione del costo del petrolio: altrimenti, gli arabi continueranno a vendere barili e a comprare mogli e  noi saremo costretti a vendere nostra moglie per comprare un litro di benzina. Reagan ha detto ad Andreotti che, se gli permetteremo di installare 600 missili Cruise in Italia, lui frenerà l’ascesa del dollaro, fino al punto che ci vorranno 2000 dollari USA per fare una lira italiana! Inoltre, il vecchio cow-boy vorrebbe l’appoggio anche del PCI per la sua rielezione a Presidente degli Stati Uniti.

    2°- Col ca!… caldo, sono arrivati anche i consueti nuovi aumenti. A Roma, una massaia si è lamentata per aver pagato un cavolo 3.500 lire: “Ma  vale così tanti soldi un cavolo?” “No, signo’, sono i soldi che non valgono più un cavolo!” è stata la risposta del bottegaio. Sono aumentati anche gasolio, zucchero, sigarette, pane e telefono; oltre, naturalmente, ai cittadini che non ne possono più. Il governo Forlani capisce il travaglio dei contribuenti e promette che ce la metterà tutta.

1°- Nel sedere… a tavola, davanti al solito, pantagruelico, pasto il segretario del PSDI, Pietro Longo, ha detto che la comunicazione giudiziaria che gli è arrivata ieri dalla magistratura lo lascia perfettamente tranquillo. “ Non perdo certo il sonno. Dormo come un bambino” ha detto. Infatti: dorme due ore, si sveglia e piange. Dorme due ore, si sveglia e piange…

 Come i pupi.

2°- Come i pupi siciliani, muove i fili di Lima e Ciancimino l’aitante Andreotti: l’unico politico italiano con la testa sulle spalle… direttamente (non ha collo!). Andreotti e i suoi, Squalo e Ciarrapico in testa, stanchi di dover ricorrere al voto di fiducia, sono pronti a nominare nuovo presidente del consiglio il Comm.Galbani: come si sa, GALBANI VUOL DIRE FIDUCIA.

1° - Fiducia e ulteriore pazienza ha chiesto un esponente del gabinetto Forlani. Mentre il Primo ministro, in tarda serata, è uscito sconvolto e seminudo dal suo gabinetto privato esclamando: “L’Italia va a rotoli e qui non c’è mai carta!”

Anche per oggi è tutto. Ricordate che: è meglio essere ricchi e sani che poveri e malati. Buonapera.

Oppure, uno dei monologhi fatti a Via asiago tenda, per il terremoto nell’Irpinia:

“ Visti li avete quelli del sud? Piove sempre sul bagnato! Cappitto mi hai? Non gli bastava il sole, il mare, la pizza e i mandolini… Adesso, pure il terremoto e il maltempo. Tutto a loro! E, mentre i nostri bambini si annoiano al caldo, in poltrona, a mangiare pasticcini guardando la tv, i bambini fortunati dell’Irpinia possono sguazzare felicemente nelle pozzanghere per tutto il santo giorno. Anzi, i più fortunati possono rimanere nel fango anche di notte. Gratis! E c'è gente onesta, imprenditori, manager di stato, eccetera che per fare i fanghi PAGANO! Il sig.Brambilla di Bergamo ha dovuto risparmiare quindici anni per comprarsi una roulotte! Questi irpini, con la scusa del terremoto, ooops! quasi tutti in roulotte: subito! E senza sacrifici! E il governo? Festeggia! Vista la gioia dei bambini del Belice e del Friuli, che ormai hanno 35 anni e ancora giocano felici all’aria aperta, il governo non si sogna nemmeno di infastidirli coi soldi della ricostruzione. Cappitto mi hai? Eppoi, chissà dove son finiti quei soldi. Avranno preso per la tangente o li hanno conservati così bene, che ormai non si trovano più. Tutti a gridare al disastro. Ma quale disastro? Li conosciamo bene i napoletani! D’estate c’è il turismo, ma d’inverno non succede niente. Secondo me, si sono inventati il terremoto per dare una spinta all’economia. Gava è un genio. Del male, ma sempre un genio è. Cappitto mi hai? E’ arrivata un sacco di gente. Addirittura il Papa! E ha tenuto un bellissimo discorso. Ma i napoletani, che non si accontentano mai, hanno detto: ”Ma quale discorso?! Dacci un po’ di soldi che, grazie a Dio, ce li hai!”

Cappitto mi hai? Lui li ha commiserati: solo persone grette e senza cuore possono pensare ai soldi in momenti così… Il Papa è superiore a queste cose. Ha cose più urgenti per la testa; tipo tornare in Africa a chiedere scusa: nel corso dell’ultimo viaggio, vi ricordate? Nella ressa, morirono diciotto negretti. Mentre non si hanno notizie di diciotto Papi morti, per voler vedere a tutti i costi un negro da vicino. A tutti i modi, beati i poveri! C’è gente, meschinetta, che è costretta a fare i salti mortali per evadere il fisco e potersi comprare uno straccio di panfilo. Questo ministro Reviglio proprio non ci voleva: un mastino è! Uno fa sacrifici, finalmente riesce a comprarsi uno yacht da due miliardi… e subito arriva il ministro Reviglio: “Ma se tu hai dichiarato un reddito di otto milioni annui, come fai a comprarti una nave da due miliardi?!” Impiccione. Secondo me, non dura. E al sud, tutti in roulotte. Vita sana, due minuti per rimettere in ordine “casa”. Prendi qualche bella sciura del nord, con venti stanze da pulire… ( voce da donna) “Povera me, non si trova più una domestica nemmeno a pagarla oro! Pensa che all’ultima, una sardegnola tanto seria, ero arrivata a offrirle addirittura 150.000 lire al mese. Niente! L’ha ga preferì d’andà in fabbrica per 800.000!” Cappitto mi hai? Il governo pensa ai terremotati e non si preoccupa per queste signore che, a volte, hanno soltanto due o trenta domestici che le aiutano. Non lo sa il governo che sacrifici ci vogliono per mandare avanti una casa di venti locali, tre saloni, cinque servizi, parco, piscina… Altro che chiacchiere! Nooo! Il governo si preoccupa di ripristinare il traffico in Irpinia. Sì, il traffico di bustarelle, falsi appalti, nascita di nuove ditte dai nomi fantasiosi: “De Sciacallis & Camorra S.p.A.” . Mai come ora: E’ meglio essere sviluppati sotto che sottosviluppati! Cappitto mi hai?!

 

In quel periodo, grazie a Paolo Poma diventato mio amico, mi iscrissi alla Cooperativa di lotta e di lavoro per un Cinema democratico. Ma noi chiamavamo la sede di viale Giulio Cesare semplicemente Cinema Democratico. Per circa due anni frequentai quasi quotidianamente alcuni dei mostri sacri del cinematografo: il grande sceneggiatore Ugo Pirro, Nanny Loy, lo scrittore Massimo Felisatti, il regista sceneggiatore Luigi Filippo D’Amico, lo scenografo Umberto Turco, il direttore della fotografia Claudio Cirillo, l’aiuto di Sergio Leone e regista anch’egli Tonino Valerii. Più sporadicamente vedevo il primo regista di short pubblicitari italiani Alfredo Angeli, oggi anche produttore e ancora mio amico, il decano degli aiuto registi Roberto Pariante e un sacco di altri importanti personaggi. Rubai  loro tutto il mestiere possibile e loro erano ben felici di vedere che mettevo a frutto ogni loro parola; ogni loro insegnamento velato. Venni incaricato, insieme a Maurizio Graziosi, di occuparmi del settore giovani. Cosa che feci con grande umiltà e tanta passione. Intanto mi mantenevo con la radio.

Quando arrivarono le prime telefonate di protesta per i miei testi irriverenti, anche se mai volgari od offensivi, da parte dell’allora deputato Pietro Longo, di Francesco Cossiga o di Giulio Andreotti, in Rai si accorsero che ero solo e senza coperture e, semplicemente, smisero di farmi lavorare. Arrivarono anche minacce di querela e querele poi rimesse. Smisero anche perché non sganciavo mazzette: più di un registello interno e più di un funzionario si erano fatti la villa all’Olgiata, paradiso nascente ma già carissimo, con i guadagni in nero.

A Via Asiago tenda conobbi Stefano Satta Flores. Quello che poi sarebbe diventato uno dei miei più cari amici e uno dei miei più accaniti sostenitori, si comportò all’inizio in maniera molto strana. La mia fama mi aveva preceduto e Stefano, grande attore ma anche grande scrittore, mi scambiò per uno dei tanti raccomandati pompati. Da lì, prese a cercare di mettermi in difficoltà ogni volta che poteva. Mi faceva dei trabocchetti a bruciapelo o mi tirava in ballo quando non spettava a me stare in scena. Spiazzato dalla prontezza e dall’arguzia delle mie risposte, ma anche dall’ilarità genuina e dagli applausi convinti del pubblico ad ogni mia sortita, decise che avevo passato l’esame. Cambiò registro e mi invitò a prendere un gelato con le rispettive famigliole. Sapeva che i miei erano venuti a trovarmi e si sarebbero trattenuti per qualche giorno. Lui venne con le figlie, io con tutta la mia tribù.

La seconda volta che ci incontrammo fuori dalla Rai, fu a casa mia, circa un mese dopo. Avevo trovato una bella casa a Roma e mi costava meno della cameretta alla pensionaccia; così feci trasferire la mia ormai quasi ex moglie e i miei ragazzi: Marybel, Mila e Lucio Wilson. Stefano venne a pranzo con Marina, la sua compagna di allora. Decidemmo di provare a lavorare insieme. Mi aveva già più volte chiesto di entrare in compagnia con lui, a paga altissima. Ma avevo rifiutato motivando il diniego: non sono capace di lavorare in un gruppo che abbia fra i componenti anche soltanto UNA testa di cazzo. Litigo subito. E lui, ridendo, aveva ammesso che almeno una testa bacata c’era anche nella sua compagnia. Per lo stesso motivo avevo rifiutato, un anno prima, di rappresentare il teatro italiano ai festival di Baltimora e New York, con la Clizia del Machiavelli. Lavoravo benissimo da solo. Oppure con un gruppo di gente selezionata da me e dove avevo l’ultima parola. Altrimenti, ciccia. Stefano lesse alcuni lavori miei e gli piacquero moltissimo.

Scoprì che non ero bravo soltanto a scrivere monologhi e mi invitò a teatro per la prima di una sua nuova commedia. Mi pregò anche di prendere appunti perché non era molto convinto della tenuta del testo. Andai ben volentieri, con una mia amica, e dovetti quasi litigare con due vecchietti della fila dietro la mia. Costoro, un’anziana coppia, grandi estimatori di Stefano, non sopportavano il fatto che io ridessi così poco. A cena, dopo lo spettacolo, raccontai la cosa al mio amico e ci facemmo delle matte risate. Ma a lui interessava molto di più conoscere il mio parere.

Glielo dissi. Lui non si stupì più di tanto per la puntualità delle mie osservazioni: ormai ero un collega stimato e rispettato. E uno dei pochi amici sinceri. Così come lui lo era per me. Decidemmo di lavorare insieme, al rafforzamento del secondo atto soprattutto. Prima però lo convinsi a firmare con me un mio vecchio progetto per una sit com per la tv. Accettò di buon grado e venne parecchie volte a casa mia. Gli piaceva la mia casa e l’atmosfera scanzonata che vi regnava.

E amava la mia cucina. Nonostante la ritrosia della mia ex moglie (ormai eravamo separati in casa), l’ambiente era festoso e sereno. Miei figli ed io passavamo le giornate a prenderci per il culo a vicenda. Mai stati problemi seri. Contrariamente a quanto avevano fatto i miei genitori con me, io stavo al cento per cento dalla parte dei miei ragazzi. Sempre. Così a casa e così a scuola. Erano e sono dei ragazzi fantastici. Più di una volta ho mandato a quel paese maestri e professori imbecilli che provavano anche solo a non capirli. Stefano, arrivata l’ora del lavoro, sedeva alla mia scrivania e si preparava a scrivere. Rigorosamente a mano. “Tanto lo saccio che tu nun tieni fantasia de fatica’.” ripeteva e rideva. Infatti. Odiavo scrivere a mano e ancora di più lo odiavo quando lavoravo in coppia. Io passeggiavo, bevevo vino, fumavo e inventavo a braccio. Lui rideva e scriveva. A volte strillava: “Fermo!” Quando gli veniva qualche idea e me la sciorinava. Oppure, dopo il fermo!, scuoteva la testa e si nascondeva il viso tra le mani: “ No, no… era ‘na strunzata… Perdoni, maestro, diceva.”

Ho ancora conservati parecchi dei fogli scritti da Stefano. Peccato che l’Italia sia un Paese dalla memoria così corta. Non ho mai saputo di nessuna manifestazione in onore di quel grande del teatro e del cinema che fu Stefano Satta Flores.

Torniamo alla radio. Uno dei miei primi programmi personali, credo Ribalta aperta, mi fu affidato in modo alquanto singolare. Una delle segretarie di Gianni Bisiach, allora pezzo grosso di Radio Uno, gli parlò di me. Lui, me presente, le disse coi suoi modi molto anglosassoni che «se ne sbatteva il cazzo dei comici sardi»!

Qualche tempo prima, ero stato invitato a Torino per una tournée di quattro date, che sarebbero servite a supportare un candidato di origini sarde per le elezioni. Il candidato si chiamava Bruno Salis ed era del PSI, ma della corrente minoritaria avversa a Bettino Craxi. Pagato bene, trattato meglio, mi esibii secondo i miei standard in un teatro gremito fino all’inverosimile. I pezzi grossi locali erano assenti, con gran disappunto del candidato: stavano tutti in un altro teatro, dove si esibiva l’idolo locale, un cantante di serie B poi diventato legaiolo, credo Gipo Farassino. Non c’erano presenti che loro, in sette o in otto, oltre al povero Farassino, e quei potenti si chiedevano dove fosse il popolo: i possibili voti.

— Dal sardo — qualcuno riferì, ed eccoli arrivare sgomitanti.

Nel teatro non c’era più posto per uno spillo. Un miracolo? No, le cassette audio coi miei primi monologhi satirici andavano in onda con grande successo presso le radio private e… Torino era la più grande città della Sardegna.  Il teatro era un uovo: pieni i corridoi, gente seduta per terra tra le poltrone, altri spettatori a tappezzare le pareti, in piedi come cavalli per più di tre ore. Ero in vena. I papaveri fecero cose turche per arrivare alle prime file, ma la gente era in mia balìa e badava a ridere e applaudire. Non se li filò nessuno. Io nemmeno li conoscevo, ma approfittai del trambusto che avevano creato per rifilar loro qualche stoccata.

Finito lo spettacolo, gli organizzatori fecero riaprire un ristorante di amici, soltanto per noi, ed ebbi l’onore di conoscere i miei commensali: Giusy La Ganga, il capo riconosciuto,  Nerio Nesi, allora presidente della BNL, e altri ancora che non ricordo. Fui corteggiato tantissimo da questo La Ganga che, prima di salutarci, mi disse (come gli altri del resto):

- Qualunque cosa ti serva, alla Rai o in qualunque altro campo, fammelo sapere. -

Io mi scordai all’istante. Però, quell’uscita di Gianni Bisiach mi aveva ferito, e mi erano tornate in mente quelle «ultime parole famose».

Proprio in quei giorni doveva arrivare a Roma una mia amica sarda, della segreteria di La Ganga: Giovanna Frau. Con Giovanna ero in grande confidenza, facevamo anche le vacanze insieme, con le nostre famiglie, e mi aveva pregato di riservarmi qualche attimo libero per stare un po’ insieme. Lei aveva da sbrigare alcune faccende in via del Corso, poi ci saremmo visti. Giovanna arrivò e, logicamente, mi chiese come andassero le cose. Io mi ero ormai scordato l’albergo dignitoso, ed ero già finito nella famigerata pensionaccia di via dei Gracchi. La mia cameretta, oltre a migliaia di ragni, ospitava un lettino che sembrava la poltrona-puf di Fantozzi. Il bagno era lontanissimo e rugginoso. E puzzolente. Ricordo un vecchietto con le orecchie sbottonate che faceva il portiere di giorno: “Ha dormito bene?” mi chiedeva tutte le mattine. “Sì, grazie. Ogni tanto mi dovevo alzare per riposarmi, ma non fa niente.” Era una nostra gag fissa. Lui rideva, sdentato, e io andavo al bagno comune sperando di trovarlo libero. E di uscirne vivo. Gli introiti non coprivano le uscite e i risparmi mi avevano abbandonato da tempo. Così raccontai alla mia amica la partaccia fattami da Bisiach. Lei, pur conoscendomi, mi fece promettere che avrei parlato con Claudio Martelli e mi prese un appuntamento con lui per qualche giorno dopo. Giovanna ripartì ed io, seppure a malincuore, mi presentai all’ufficio di Martelli, in via del Corso. Lui era stato chiamato d’urgenza a Palazzo Chigi, o non so dove, e venni ricevuto dal suo segretario particolare: un certo Restelli. Costui mi fece un sacco di feste e mi mise subito a disposizione le chiavi della Fininvest.

- Qualunque cosa, — ripeteva, bello e abbronzatissimo — quello che vuoi. So che sei bravissimo. Dimmi che cosa vuoi fare e tra due giorni stai a Milano col contratto in mano.-

Io gli spiegai che non mi interessava punto andare a Milano: c’ero già stato, e il clima non era per me. Bella città, bella gente, ma… Non gli dissi delle storie che già circolavano sul suo Berlusconi e che non mi passava nemmeno per la capa di invischiarmi in certi giri. Inoltre, ero a Roma per lavorare alla Rai e alla Rai avrei lavorato. Si fece raccontare quali fossero gli ostacoli, ma io, odiando le raccomandazioni, non gli dissi delle proposte sconce che avevo ricevuto da quelli della TV, né della «stronzata madre» uscita dalla bocca di parecchi dirigenti: — Fai quaranta personaggi, uno meglio dell’altro, perché ti ostini a fare il sardo? Non gliene frega un cazzo a nessuno di un comico sardo: la Rai arriva anche in Trentino e in Sicilia. Eppoi, voi siete meno di un milione e mezzo!-

-Anche i cow-boys erano meno di duecentomilarispondevo sempreperò se ne parla ancora, eccome! Dipende da cosa dici e da come lo dici. E dipende soprattutto da chi  dice… -

Restelli, che pure mi era simpatico, sembrava un manichino animato: mi limitai a dirgli che mi sentivo pronto per avere programmi miei, ma che non volevo assolutamente «interventi», grazie. E me ne andai.

Sere dopo, mi telefonò Giovanna e fui costretto a raccontarle tutto, compreso il «fatto Bisiach». Lei s’incazzò, mi mandò a quel paese, e mi fece giurare… io non ho mai giurato in vita mia, ma quella volta lo feci. Giovanna stava male ed era una donna straordinaria: non volevo farla stare peggio per causa della mia testardaggine. Un cancro terribile se la portò via, non molto tempo dopo. Giurai che sarei andato da Bisiach la mattina successiva: avrei dovuto semplicemente dirgli:

- Ti porto i saluti di Giusy La Ganga. -

Così feci. Anzi, non proprio così. Mi presentai dinanzi alla porta aperta dell’ufficio del boss che, impegnato con un’altra persona, non appena mi vide si alzò furente dalla poltrona e mi sbatté la porta in faccia. Io, nipote di pescatore e pescatore io stesso, paziente come un bonzo fiacco, mi piazzai lì e aspettai. Il tizio uscì ed io bussai, affacciandomi alla porta. Bisiach mi conosceva, sapeva che ero il comico sardo (a quel piano di viale Mazzini si parlava molto di me, e degli ascolti che facevo). Mi guardò accigliato e sollevò il mento, a dire «che cazzo vuoi?» Io, con la mia bella faccia da culo, ero curioso di vedere come sarebbe andata a finire:

-Sono Lucio Salis, — dissi — l’autore e il comico di Via Asiago Tenda — che era il cult del periodo, ed io ne ero la massima star comica — Volevo…-

Mi interruppe subito, incazzatissimo come se gli avessi dato del galantuomo, e alzò la voce:

-Io ho da fare, non vede? Non sono qui per parlare coi comici! Mi faccia la cortesia ed esca. E chiuda la porta!-

-Volevo solo portarle i saluti di Giusy la Ganga. Ero a Torino pochi…-

Un fulmine! Una saetta. Il Carl Lewis dei bei tempi avrebbe mangiato la polvere. Nonostante la mole ragguardevole, rispetto all’altezza, già alla parola «Torino» si era alzato, aveva aggirato la grande scrivania e mi aveva raggiunto… abbracciandomi! La sua voce si era fatta carezzevole, per quanto possa essere carezzevole una raspa, il suo volto da gnomo incazzoso si trasformò in un protettivo Mastro Ciliegia e:

— Ma perché non me lo hai detto subito? — disse, sospingendomi verso la poltrona di fronte alla sua — Ti prego, stai comodo. -

 Tornò indietro a chiudere la porta e prese posto sul suo trono. Si sdraiò sulla scrivania, con le mani giunte, per farsi più vicino a me e flautò:

— Cosa posso fare per te? Dimmi, dimmi… -

— Non lo so, — risposi — forse puoi parlare con qualcuno per farmi ritoccare il cachet. Dopo tutto quello che ho fatto e nonostante il successo che ho, continuo a prendere settantamila lire lorde a puntata. Stefano Satta Flores mi ha detto che, se non mi perdo per strada, passerò sicuramente alla storia, ma mi ha pregato di non dimenticarmi di passare anche alla cassa. E se lo dice Stefano… -

Mentre parlavo, lui si era lentamente adagiato contro lo schienale e, quasi inavvertitamente, aveva preso a comporre un numero di telefono. Vai avanti, mi esortava a gesti. Bisiach si incastrò la cornetta tra spalla e mento e prese a rimboccarsi le maniche della camicia celestina.

— Niente, — ripresi — se puoi fare qualcosa… Non so, sono anche pieno di progetti miei. Programmi carini e originali che vorrei fare…-

La sua voce perentoria mi interruppe: parlava al telefono e mi sorrideva.

- Come stai? — diceva — Quando? Beh, spero che troverai un minuto per un caffettino insieme. Ah, senti, ho qui con me un bravo artista. Bravissimo…— e qui sbarellò un attimo: non ricordava il mio nome. Chiese a gesti il mio soccorso e lo ebbe — Salis, sì, Lucio Salis. Bravissimo! Cazzo se meriterebbe un po’ di più! Mi ha portato molto carinamente i tuoi saluti e… -

— Brutto figlio di troia! — pensai. Non lo stetti più a sentire.  Sta parlando con La Ganga! Non si fida. Che merda! Anzi, come avrebbe detto mio nonno: «Tenit su fragu de sa merda, ma d’ammancat sa sustàntzia (ha la puzza della merda, ma non ne ha la sostanza).

— Sempre agli ordini, per qualunque cosa! Ah, ah! Ti abbraccio, caro, e mi raccomando per giovedì… almeno un caffè, eh? Un abbraccione. Ciao. Ciao... — e chiuse. Soddisfatto, tornò a me.

— Stai un minuto qui.-

Si alzò e uscì precipitosamente. Tornò quasi subito, accompagnato da un tizio molto distinto, molto massiccio, e molto «ragioniere»: infatti, era il capo dell’ufficio contratti, un certo Passacantando, se la memoria mi assiste.

Nemmeno una settimana dopo, avevo un programma di mezz’ora tutto mio e il mio cachet era salito a ben centomila lire lorde a puntata! Qualunque nipote di… o qualsiasi zoccola con i calli alle ginocchia, a furia di stare sotto le varie scrivanie dei potenti (ne ricordo una che veniva da Genova: stava tre giorni, registrava quattro cacatine, staccava la fattura per un paio di milioni e ripartiva…) quasi chiunque, insomma, non prendeva meno di trecentomila a puntata!

Comunque, e non certo per l’intervento di Bisiach, il lavoro alla radio era abbastanza continuativo, e tutti mi cercavano.

Venni abbordato da uno spilungone, tenero e ingenuo, Paolo Leone, che mi propose un programma mattutino per la domenica.

La trasmissione si sarebbe chiamata Il guastafeste, ma non guastava la festa a nessuno: mi venne espressamente chiesto di non fare satira politica, assolutamente,  di non prendere in giro i personaggi televisivi, né… — e allora di che parlo? -

Il programma era una cosetta scarsa scarsa, piena di pseudocomici dai tempi lunghissimi e senza un guizzo, una trovata, una battuta. Sembravano i vecchi dilettanti di Radio Cagliari: si limitavano a storpiare i dialetti... bah! Io, come pezzo forte, venni messo in chiusura. Il programma era domenicale, iniziava alle sei del mattino e terminava alle sette e mezzo; io avevo l’ultimo quarto d’ora: per cui anche un bell’ascolto. Non potendo usare le armi della satira, da vecchio figlio di puttana, ripiegai su «La Settimana Enigmistica». Mi ero inventato un nonno –Bachisio-  bizzarro, beone, e donnaiolo: una peste, insomma, che viveva e faceva malandrinate in Sardegna e un nipote –Gavino- posato, bigottesco, timoroso e citrullone, che stava a Roma e, settimanalmente, si muniva di gettoni per controllare, più che per sentire, il progenitore discolo. Lavoravo sul velluto: mi sceglievo due-tre barzellette vecchie dalla rivista e su quelle costruivo le mie tre cartelle di testo. Una bomba (di carta), per me, ma tutti ne andavano matti. Il regista era lo stesso Paolo Leone: una persona pulita, anche se in quota al PSDI. Alla prima puntata (registravo nel primo pomeriggio del mercoledì) stetti due ore a tribolare col fonico per trovare l’effetto «voce al telefono» (erano altri tempi…!). Finché non mi venne l’idea di coprire il microfono col cellofan del mio pacchetto di sigarette: perfetto!

Durante i tre o sei mesi de Il guastafeste, il Consigliere di Amministrazione e senatore Pirastu (PCI, fratello dell’ortopedico di Giggirriva dei tempi d’oro, nonché — come seppi molto più tardi, ahimè — zio del mio ex socio Marcello Mazzella…), avendoci sentito alla radio, volle conoscerci: scoprì presto che ero io solo a fare entrambi i personaggi, e si entusiasmò ancora di più.

Mi prese sotto le sue ali e cominciai a frequentare regolarmente il suo ufficio. Pirastu era un uomo tarchiato e molto socievole; un comunista sui generis, ricco di famiglia, aveva anche una grande farmacia, a nome della moglie, in via Nazionale a Roma. Mi fece portare un sacco di proposte per programmi TV, presentandomi Fuscagni e Voglino: Prima Rete. Venni dirottato anche presso un certo dottor Pinto e presso Daniele Piombi, per Direttissima con la tua antenna. Insomma, l’uomo ci teneva a segnalarmi, voleva farmi emergere, ma aveva scarso potere. Dopo ogni incontro di fine pomeriggio, dove stavamo a chiacchierare tranquillamente anche fino alle venti in una Rai deserta, me ne tornavo euforico alla mia pensionaccia. Uscendo dal suo ufficio prendevo a prestito qualche foglio dalle varie fotocopiatrici disseminate lungo i corridoi. Mi fermavo alla rosticceria sotto casa e carico di fogli bianchi, una bottiglia di Chianti scadente, e qualche supplì, salivo ai miei appartamenti. Posavo i fogli sulla mia inseparabile Lettera 22 e i supplì sul termosifone, badando a non fare il contrario, e mi mettevo ad inventare.


                                                                                  V

 

Portai

In una società capitalistica i perdenti fanno gli schiavi per i vincitori e ci vogliono più perdenti che vincitori… Sapevo che la politica non avrebbe mai risolto la questione, e non c’era più tempo per avere un colpo di fortuna.

C. Bukowski  (Hollywood, Hollywood!)

 

 

 

Così, dietro le segnalazioni di Pirastu o tramite segnalazioni a catena, conobbi Carlo Fuscagni e Bruno Voglino. Fuscagni, un bell’uomo alto tra i quaranta e i cinquanta, elegante e sempre profumato, mi accolse quasi genuinamente. Troppo. Vedevi lui e vedevi uno che gli presenti tua moglie e lui ci prova subito, dietro al primo angolo. Di Voglino parliamo dopo. Comunque portai ai due il Telegiornale della pera (diventato poi, nel 1989, Striscia la notizia, e tanti altri programmi con diversi titoli…). Portai Pizzeria Italia, la prima sit-com italiana, scritta e firmata con l’aiuto del mio fraterno amico e maestro Stefano Statta Flores (col quale lavoravo ormai da due anni alla radio). Pizzeria Italia è stata scopiazzata maldestramente, prima da Abatantuono in una cosa penosa su Euro TV, credo, poi dalla Rai, con Proietti, in Italian restaurant.

Non esistono in Italia leggi efficaci a tutela del diritto d’autore: chiunque può impadronirsi di un progetto originale soltanto cambiando il titolo o un minimo di ambientazione. Abatan­tuo­no agiva in un bar, Proietti in un ristorante italiano in America.

Ma quello era!

Portai Celluloide: megashow ricchissimo di idee nuove, ancora in gran parte inedite (non sanno nemmeno rubare!), scritto insieme a Maurizio Graziosi con l’intento di celebrare per tempo i novant’anni del Cinema. Anche questo progetto venne smembrato, involgarito e proposto a pezzi da vari personaggi. Un primo spezzone lo presentò Monica Vitti, poi via via altri, fino ad arrivare alla insipida trasmissioncina, con soliti ascolti standard: bassissimi, di Serena Dandini e Claudio Masenza, qualche anno fa. Posseggo ancora il progetto originale, in fotocopie con sopra stampigliata la sigla RAI.

Portai Album, diventato, anni dopo, un programma per TMC: Buon compleanno

Portai Difensore civico, idea mutuata da una fortunatissima rubrica de «La Settimana Enigmistica»: Se voi foste il giudice, e nata dalla mia curiosa passione per la giustizia. Qualcuno (Fuscagni, nel passaggio alla Fininvest?) lo fece diventare, pari pari, Forum.

Portai Condominio Show, dove c’erano le idee madri del quasi recente flop: Tiramisù di Baudo.

Portai La Piazza, poi divenuto il volgare I fatti vostri.

Portai tantissimi altri progetti originali. Molti di questi programmi non sono stati depositati: la SIAE non accettava lavori che non stessero per andare in scena o in onda. Di alcuni non possiedo nemmeno più le copie. Ma giuro sui figli di Berlusconi che è tutto vero. Ho un’infinità di testimoni.

Tutti questi progetti furono regolarmente scippati, compresi giochi e rubriche da insertare nei programmi contenitore. Se riguardo i miei vecchi appunti, vedo che ancora oggi, ci sono i vari Gabriele La Porta o Morning news di Rai Tre o i preserali di Raiuno che «vendono» materiali miei portati allora e da me poi riproposti nel corso del tempo.

Portai anche, nel novembre 1983, Io lo faccio meglio, varietà basato su emeriti sconosciuti che sfidavano dei Vip o dei campioni sportivi, come lo sciatore di Bergamo che era sicuro di battere Tomba; la ballerina sconosciuta di Cagliari che credeva di essere più brava della Parisi, etc., fin troppo simile alla promozione del Faccia tosta con Teo Teocoli.

Nell’agosto del 1983, fui contattato per un’apparizione importante nel programma di Romolo Siena Ci pensiamo lunedì, ma sfumò tutto per il solito problema di sponsor politici che non avevo e non volevo.

A Fuscagni ero simpatico e anche lui era intenzionato a piazzarmi, così mi mandò a bussare alle  porte di dirigenti, capi e sottocapi struttura: Wilma l’Abate, Frattolillo, Enrico Aragno

A fine novembre mi richiamò Bruno Voglino, ma la sua proposta era la solita: «do ut des». Al mio «no, grazie», mi disse che non avrei combinato mai niente in Rai, con quel mio comportamento utopistico e testardo. Raccontai il fatto al mio avvocato, D’Amati, che stava curando una mia causa di recupero crediti (poi vinta) contro un allegro impresario, il marchese Antonio Gerini, altro maneggione in ambito Rai, ma D’Amati mi disse che denunciare Voglino, senza testimoni o prove, sarebbe stato come combattere contro i mulini a vento...

Mi proposi a Gianni Minà per Blitz, e mi parve interessato… Un certo Martinelli mi promise dieci settimane come ospite fisso a Blitz. Risultati? Zero.

Tramite Pirastu, andai a parlare col senatore Peppino Fiori, amico di Minà. Lo incontrai in un pomeriggio di metà dicembre del 1983, presso la biblioteca del Senato. Fiori mi promise che avrebbe parlato con Gianni e mi diede un numero di telefono riservato di Minà. Visto che avevo davanti un’autorità, ex direttore del TG2 e persona per bene, gli raccontai i fatti poco leciti che mi vedevano vittima alla Rai. Mi guardò con compassione e allargò le braccia. Ero proprio un ingenuo: tutti sapevano! Il consigliere Pirastu, che continuavo a incontrare nel suo ufficio al settimo piano di viale Mazzini, ne parlava quasi apertamente con me. Mi raccontava dei giri loschi di miliardi che altri consiglieri e dirigenti facevano per esempio con la library (i cataloghi dei film comprati dalle majors americane). Questi «amministratori pubblici» stipulavano sempre doppi contratti: uno ufficiale per la contabilità dell’azienda, nel quale figuravano sempre pacchi di miliardi in più, e uno reale. I miliardi in più sparivano sempre. — L’ultima volta se ne sono fregati dodici, — mi disse — noi siamo solo in tre della minoranza, così i bilanci li approvano sempre e comunque.-

Allora i Consiglieri di Amministrazione erano dodici o quindici, non cinque, compreso il Presidente, come oggi. 

Pare che il giochetto continui ancora oggi, con l’acquisto dei cosiddetti format e con le commissioni alla struttura Cinemafiction.

L’incontro con Voglino.

Come accennavo sopra, Pirastu mi aveva fatto incontrare per la prima volta, nel 1983, con Bruno Voglino, allora capo-struttura (o vice?) della Prima Rete (oggi Rai Uno).

Al primo incontro, il dirigente, un ometto piccolo e untuoso, presuntuoso e incapace, mi fece un’ottima accoglienza e mi trattenne per oltre un’ora: cosa inconsueta, visto che non ero nessuno e i dirigenti — allora come adesso — hanno tempi strettissimi.

Voglino rideva con la boccuccia piccola, ma i suoi occhi erano freddi e sfuggenti. Il classico tipo al quale presti la macchina nuova e non la rivedi più. Oppure te la riporta distrutta e dice che gliel’avevi data già guasta. Un Giuda di seconda categoria. Lo vedevi e lo piangevi. Nessuno avrebbe potuto accusarlo di intelligenza o di genio sfrenato. Basti vedere i fiaschi che ha collezionato, a spese dei contribuenti! Ultimo programmazzo inguardabile e fesso: GNU, circa duecentomila telespettatori… Meno del segnale orario delle 3 del mattino!

Voglino mi ricordava il protagonista di una delle mie vecchie storielle.

Un fregno buffo che entra in un bar accompagnato da un amico normale. L’amico normale, che può anche parlare, ordina al barista due gin tonic: per sé stesso nel normale bicchiere e per l’amico in un piattino. All’arrivo del piattino lo apostrofa divertito:

Guarda, Bruno, guarda se questo disegno sul piattino non somiglia ai disegni che facevano in quella tribù di… di coso là… Come si chiama quel villaggio dove tu hai detto allo stregone che era un coglione?”

 Voglino si fece lasciare copia dei progetti e, al momento del commiato, mi venne vicino e mi sussurrò:

-Ma… se io ti lancio, cosa me ne viene in tasca? -

Rimasi interdetto. Ne parlai al bar dell’ottavo piano con una conoscente della radio, che si stupì per la mia ingenuità e mi disse che la mazzetta al dirigente o al conduttore era una prassi normale anche alla radio: che Arbore e Boncompagni, per esempio, prendevano circa 25.000 lire al giorno di cachet — ai tempi di Bandiera Gialla — però portavano a casa centinaia di milioni l’anno, grazie a mazzette e regalie da parte di grandi e piccoli discografici, editori musicali, e cantanti in cerca di notorietà. Quelli che, non da oggi, si comprano il Festival di Sanremo, insomma. I grandi Arbore e Boncompagni, che avevano bollato Emozioni di Battisti come “solenne cacata”, cercando di lanciare il retro: Anna, dato che Battisti non si poteva ignorare… Spesso, come facevano certi Franco Zauli, Paolini (non Gregorio) ecc., oltre alla mazzetta pretendevano di firmare i brani insieme con i veri autori, per avere introiti «puliti» dalla SIAE. Così questo Zauli ha firmato anche alcune canzoni mie e di Antonio Salis, delle quali non aveva ovviamente mai scritto un solo rigo. Ma lui stava a Roma e aveva le entrature alla Rai, mentre il nostro discografico stava a Milano… e pagava anche così, coi nostri diritti, le spintarelle.

Un altro conoscente mi spiegò l’iter di tanti programmi televisivi miliardari: un politicante (in genere del PSI , DC, o PSDI) riusciva ad ottenere un certo budget dalla Rai, grazie ad un suo uomo collocato in posizione preminente nell’azienda; fatto questo, si sceglieva il

Guardì o il Baudo del caso e, scremato abbondantemente il budget iniziale (sempre di parecchi miliardi) in combutta con lui (anche fino al 50%), il resto serviva effettivamente per la realizzazione del programma.

Basterebbe che la G di F facesse un controllo su entrate e uscite di programmi come Il gioco dell’Oca con Gigi Sabani o Mille lire al mese del 1994 con Frassica (capostruttura di Rai Uno, Elena Balestri), e comunque di tutti i programmi dove c’entravano o c’entrano i vari Dino Vitola, Antonio Gerini, Bibi Ballandi, Scotti-Pistoia… Per non parlare delle allegre gestioni di Sodano e soci a Rai Due: gli affari con Stefania Craxi dagli allegri acquisti  alle commesse multimiliardarie che continuano tuttora. E poi La Porta, Mirabella-Voglino, Bisiach, quando era a Radio Uno, o il potentissimo Minoli coi suoi soci. Io non accettai mai di entrare a far parte di questi giochetti, e per questo fui sempre discriminato e tenuto alla larga. Grazie a Dio.


                                                                                  VI

 

Erano i primi anni Ottanta

 

 

Tutto è perfettibile. Persino io.

L.Salis

 

 

Erano i primi anni Ottanta. Ricordo una cosa curiosa: ci fu un’ispezione, provocata da una denuncia del produttore Edmondo Ricci. Questo signore di settantacinque anni (di cui vi parlerò dopo), arzillo e combattivo, stava per produrre un kolossal dal costo di trenta miliardi: Cristoforo Colombo, ma incappò nella fatidica richiesta di mazzetta:

«Tre miliardi a me oppure il lavoro non lo fai»,

da parte del potente direttore di Rai Due, Pio De Berti Gambini, messo lì dal suo testimone di nozze, certo Bettino Craxi. Edmondo Ricci mandò a quel paese il Gambini-Gambler e lo denunciò. I giudici romani erano quelli che ora scappano a Londra dai figli o si trovano agli arresti domiciliari o, comunque, sotto inchiesta, e l’amico Ricci, il galantuomo Ricci, perse la causa e venne querelato a sua volta dal mazzettaro craxista per calunnia. Naturalmente, col tempo e la pazienza, Ricci ebbe un minimo di giustizia e trionfò in Corte d’Appello e poi in Cassazione. Non poté tuttavia chiedere i danni al De Berti Gambini, nel frattempo deceduto. In compenso fu iscritto, come me e tanti altri, nella lista nera, e sono ormai diciotto anni che alla Rai non lo fanno più lavorare! Ed Edmondo Ricci non è un Marzullo o uno sfigatello di Telepannocchia: è uno che ha vinto un Emmy Award già nel 1963 per una sua produzione con la ABC Television, ha prodotto film di Antonioni e Lizzani, ha vinto premi al Festival Cinematografico di Venezia...

 

Ci fu un’ispezione, dicevo, e in Rai accadde un vero e proprio inferno. Portarono dai magazzini sedie e scrivanie mai viste, che piazzarono anche nei corridoi e si videro un mare di facce nuove: tutta gente stipendiata lautamente dalla Rai, ma che non vi aveva mai messo piede! Gente che «lavorava» stabilmente presso i partiti di appartenenza, nei giornali di partito (ricordo un Angelini di Mondo Operaio), o in qualche Ente. Tizi e tizie che non avevano un mestiere né sapevano che fare nella circostanza.

Ma avevano un doppio stipendio.

Questo era l’andazzo. Questo è l’andazzo!

Intanto il mio nome cominciava a circolare, sempre accompagnato da ottimi aggettivi, tanto che persino Pippo Baudo mandò due dei suoi autori, Franco Torti e Bruno Broccoli (padre del signorsottuttoio di Telesogni – Raitre), ad ascoltarmi mentre mi esibivo a Via Asiago Tenda. Il programma era l’evento radiofonico di quegli anni. Aveva sostituito come spessore e importanza il famoso Gran Varietà. Il pubblico, mediante biglietti d’invito, aveva accesso all’auditorio A di via Asiago e per me c’era sempre il pienone; spesso non bastavano le poltrone. Presentava Satta Flores, spesso insieme ad Antonella Steni, e a parte il comico fisso, c’erano ospiti di rango: Nanni Moretti, la Carrà dei tempi d’oro, PFM, Verdone, ecc. Altri comici che  si avvicendavano in quegli anni davanti ai microfoni erano: Daniele Formica, Nanni Svampa, Franco Rosi, Leo Gullotta. Devo dire però che, quando non c’era il mio nome in cartellone (facilmente verificabile), il pubblico raramente raggiungeva le cinquanta unità; contro le quasi trecento presenze fisse che affollavano l'auditorio quando mi esibivo io. Non me la tiravo affatto: per me era normalissimo avere successo. Anche se spesso passavo la notte precedente alla registrazione sveglio a pensare ai miei figli piccoli; e magari cenavo e pranzavo con pochi supplì scaldati al termosifone della mia stanza, ero sempre invincibile. Alle 15 del lunedì, vestivo il mio abito di velluto marrone e mi piazzavo davanti al microfono e al pubblico, ilare e kattivo, e registravo in diretta i monologhi per le cinque puntate che sarebbero andate in onda la settimana successiva. Successo. In questo, mi era di immenso aiuto anche Stefano Satta Flores: il mio primo ammiratore!

Ogni settimana mi “sfrucugliava” per conoscere in anticipo i temi dei miei monologhi, o magari anche soltanto una battuta, ma lo tenevo sempre sulla corda.

Le sue fragorose risate e l’applauso energico di Stefano erano per me ben più importanti del cachet, che pur mi garantiva la sussistenza a Roma. Ancora lo sento vicino, Stefano, e mi dà la forza di andare avanti.

Così, vennero a vedermi i messi di pippobaudo. I due furono entusiasti e mi proposero di fare una puntata a Domenica In.

Il mio agente di allora era un certo Adriano Fabi (marito di Sabina Arbore e cognato di Renzo), titolare della Contatto. Adriano era uno che avrebbe spiegato a Soldini come si porta una barca a vela, a Pavarotti come si canta o a Mohammed Alì come si fa la boxe. In realtà, aveva la cultura di una cozza al gratìn e l’intraprendenza di una vergine luterana. Fabi era amico di Dino Vitola, tirapiedi di Baudo e ricco impresario. Anche se non era molto chiara la fonte della sua opulenza, visto che non rappresentava nessun artista di nome. Baudo stesso era rappresentato da Gentile e Marangoni. Fabi prese un appuntamento con Baudo negli studi di Domenica In, un sabato, durante le prove.

L’appuntamento era per le quindici, ed io fui puntuale come sempre. Mi misi in un angoletto della platea e aspettai buono buono. Il divo era impegnato ed io mi divertivo a studiare il suo metodo di lavoro. Ebbene: non ne capiva una sega!

E questo sarebbe il grande professionista? pensai. 

Lui con tutti i suoi autori non erano in grado di cacciare fuori un’idea degna di questo nome. Tutto era vecchio, ovvio, e scontato. Ma potevano contare su ospiti di grande prestigio, e questo è sempre stato il segreto del successo di Pippo Baudo! Un conto è dire:

— Signore e signori, ecco a voi Pinco! — Altro è, come è sempre stato, lanciare:

— Signore e signori, ecco a voi Elton John! o Madonna! piuttosto che i Duran Duran o Michael Jackson… Tutto qui.

Lui parla tanto, ancora oggi, di mancanza di idee negli autori e della sua unica e inos­si­da­bi­le innovazione, ma in realtà sono più di trent’anni che fa lo stesso programma! Io stesso avevo partecipato, prima con I Barrittas, poi con i Salis & Salis (i miei due gruppi musicali) al suo primo show televisivo importante, Settevoci, che altro non era se non una gara tra cantanti e complessi.

Dopo oltre trent’anni, Baudo continua ancora con le gare: tra salumieri, cantanti, imitatori, massaggiatrici, comici, ballerine, estetiste, artisti da strada. E le palette sollevate dal pubblico finto…

Di ospiti, quel sabato pomeriggio d’attesa ne arrivò uno, prestigioso: verso le diciotto giunse Paolo Villaggio, da Genova, per lanciare il suo trionfale film Fantozzi a Domenica In. Baudo & C. non avevano filato per nulla me, ma non filarono nemmeno Villaggio che, dopo un paio d’ore, seccatissimo, li mandò a quel paese e se ne andò.

Intorno alle ventidue, quand’ero ormai stremato e morto dalla fame, mi si avvicinò Broccoli e mi condusse dal Pippo nazionale.


                                                                                  VII

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Il divo era seduto

 

 

 

Cominciavo ad avvertire un senso di futilità nei confronti di un compromesso o di un accordo di qualsiasi tipo.

C. Buwowski (Hollywood, Hollywood!)

 

 

 

Il divo era seduto, o meglio accasciato, su una poltroncina della prima fila, circondato dai suoi, molto stanco e con un filo di barba bianca. Gli occhiali a catenella gli pendevano sul petto e i dodici capelli, lunghissimi per il riporto da organizzare, incollati alla fronte e alle orecchie. Non mi diede nemmeno la mano e mi chiese subito di esibirmi. «Facce ride», insomma. Io mi rifiutai: — Cosa vuoi che ti faccia, adesso? Se me lo chiedevi entro le cinque, magari avrei pure potuto farti sentire e vedere un numero, ma a quest’ora… non mi reggo in piedi. Non so nemmeno come mi chiamo! -

— Ma insomma — gridò, incazzato — la vuoi fare o no, questa puntata di Domenica in?-

— Una puntata?! — in quella, arrivò Adriano Fabi e mi mise una mano sulla spalla per calmarmi. Stavo per prendere fuoco, ma continuai cercando di restare calmino:

— Io vorrei far vedere qualcosa al pubblico. Ho tonnellate di materiale originale e non posso fare una puntata. Non conviene nemmeno a voi: sono il personaggio più nuovo e più potente che c’è in giro…-

Non mi fece nemmeno terminare; si alzò, bisbigliò qualcosa a Broccoli e se ne andò seccato. Il suo alter ego cercò di spiegarmi che nessun esordiente aveva mai fatto più di una puntata. Io cercai di spiegargli che ero vent’anni avanti al comico che stava fisso da sei puntate e non faceva ridere. Io avevo materiale migliore e molto più carisma e due cose a loro sconosciute: PERSONALITA’ e FAME.

— Sei puntate — conclusi. — O mi date sei puntate o niente.-

Broccoli allargò le braccia e indicò col mento il punto oltre il quale era sparito San Pippo, come a dire: veditela con lui.

 

Qualche giorno dopo, mentre col vassoio carico attraversavo la sala dello snack dell’ottavo piano di viale Mazzini, in cerca di un posto a sedere, mi sentii prendere per un gomito. Era Baudo. A momenti mi faceva rovesciare il contenuto del vassoio. Andò subito al sodo, senza preliminari:

    Salis, la vuoi fare o no ‘sta puntata? —

lui aveva la solita barba bianca di due giorni e l’aria stravolta da lui sa cosa

La sua battuta preferita: quando qualcuno lo chiamava PIPPO! Lui si voltava e diceva con un sorrisetto: “Pure io! Eheheh…”

In piedi, dunque, uno di fronte all’altro in mezzo alla folla del bar, io col vassoio in mano e lui, sfatto, colle mani a brocca sui fianchi.

Io avevo deciso da tempo: se doveva essere TV, doveva essere una produzione importante, e mi avrebbe dovuto lanciare. Le marchette non servivano a nulla e a nessuno. A me, no di certo. Così, in piedi come cavalli, barattai direttamente con Baudo le famose sei puntate. Pippo mi rimise nelle mani di Broccoli, che incontrai due ore dopo, e che mi disse, pressappoco:

— Per adesso, fatti furbo, accetta una puntata. Per i testi ti aiutiamo noi.

Che in italiano-Rai significa: non becchi una lira di SIAE, quella tocca a noi! Ringraziai e li mollai. Non era ancora finita. Qualche settimana dopo, mi fecero sapere di aver organizzato per me una serata in un locale di  Morlupo: Baudo voleva vedermi personalmente all’opera. Accettai. Tre giorni prima del provino, Fabi mi comunicò che c’erano dei problemi logistici e che probabilmente avrebbero organizzato un terzo tempo per me al Bagaglino di Roma. Ma saltò anche quella possibilità. Al Bagaglino traccheggiava uno spettacolino infame, di non so quale autore famoso, interpretato dalla pur brava Isabella Biagini. La battuta-gag più originale e divertente di tutto lo spettacolo era Isabella che si sollevava la gonna e con questa si sventolava il viso: “Mazza che caldo!” diceva. E la gente non vedeva l’ora di perderselo. Il famoso autore, in un primo tempo accettò di avere una mezz’oretta mia a chiusura dello spettacolo, ma poi, informatosi meglio sul mio conto, rifiutò decisamente. “E che sono masochista, disse al produttore, far chiudere a uno sconosciuto di quella portata, che risveglia il poco pubblico e si porta gli applausi a casa lui?!” 

 

 

Baudo mi stette alle costole per molti mesi. Ero un comico emergente ed autore di me stesso: merce rara! Arrivò a telefonarmi personalmente alla pensionaccia in cui stavo, per propormi tre passaggi, ma in una specie di concorso tra comici; alla quarta puntata avrei dovuto perdere, per far posto a qualcun altro (soliti trucchi alla Baudo). Lo presi a male parole e da allora mi odia. Per essere più preciso: gli proposi una gara vera, senza trucchi di giurie casalinghe, in diretta. Ma tra me e lui! Non accettò…

 

 

In quel periodo, un altro grosso personaggio volle conoscermi: un sardo tra i più potenti, e non solo a Roma... Era Armandino Corona, Gran Maestro della massoneria italiana.

 

Corona mi aveva invitato, non ricordo tramite chi, ad andare a trovarlo alla villa del Vascello. Incuriosito, andai all’appuntamento. La villa era un bunker superprotetto. Stetti cinque buoni minuti davanti al videocitofono, poi il sospettoso guardiano mi aprì il cancello.

In anticamera c’erano persone ricche e potenti, di tre o quattro nazionalità diverse. I gruppetti chiacchieravano sottovoce nelle lingue più disparate ed aspettavano. Io non attesi che pochi istanti, poi venni preso e scortato da un valletto fino al cospetto del potentissimo Gran Maestro Venerabile.

Lui, Armandino, come lo sentivo chiamare familiarmente in Sardegna, mi ricevette in pantofole. Era un ometto basso, un po’ su di peso e dall’aria cortese, quasi dimessa e inoffensiva. Mi dava l’idea del medico di famiglia all’antica, però bugiardo. Di quelli, per intenderci, che dopo aver visitato tua mamma in fin di vita ti butta una mano sulla spalla e ti sussurra: Male di stagione. Tra una settimana sarà più vispa di un’antilope. Poi, quando lo incontri dopo una settimana al funerale, alza le spalle e guarda in cielo.

Il Venerabile mi fece visitare il piano nobile e, addirittura, la sua stanza da letto:

- Su questo letto dormiva Garibaldi — mi disse.

Poi mi chiese cosa ne pensassi della massoneria. Io gli risposi che non ne sapevo praticamente nulla. Non ero prevenuto, né particolarmente interessato. Non mi capacitavo di quell’invito e lui non seppe essermi esplicito. Non mi chiese niente, se non come mai avessi deciso di trasferirmi a Roma. Glielo dissi. Lui, sardo come me, sapeva tutto di tutti e conosceva benissimo me e le mie battaglie solitarie contro il malgoverno dell’isola. Armandino era stato anche presidente della Regione sarda, e padrone assoluto — come ancora oggi è — delle cose dell’isola.

Di lì a poco si sarebbe svolto in Sardegna un altro processo che mi vedeva citato per diffamazione, l’ennesimo, intentatomi da un potentissimo assessore regionale (in seguito addirittura Sottosegretario di Stato!), massone pure lui, di dubbia onestà.

Questo simpaticone era un certo Giorgio Carta, del PSDI, che mi portò in tribunale diverse volte, uscendone sempre con la coda tra le gambe. Pensavo anche a questa coincidenza, ma non capivo. Certo, Corona era il gran capo anche di questo Carta, ma…  Che voleva da me? Comprarmi? Ammansirmi? Cooptarmi?

 

Dopo una ventina di minuti di convenevoli, venne chiamato al telefono interno e mi licenziò, non senza avermi scritto su un pezzetto di quaderno un nome e un numero di telefono.

- Torna a trovarmi — mi invitò.

E ciao.

 

Una volta in macchina, lessi il biglietto, rigorosamente scritto a matita e mi ripromisi di chiamare subito quel numero: il giallo mi intrigava.

Mi rispose un regista, Gianni Gennari (massone, va da sé), il quale, dopo i soliti complimenti, mi propose di fare qualche puntata in TV per Sereno variabile, il regno di un altro gentiluomo: Osvaldo Bevilacqua (sarebbe istruttivo e divertente controllare i conti suoi e del programma, dalla nascita ad oggi).

 

Puntata ne feci soltanto una, da Porto Cervo (troppo caustico il mio pezzo…); dove, si vociferava, Bevilacqua si era fatto dare 40 milioni in nero dal Consorzio Costa Smeralda per il servizio pubblicitario occulto. Non era l’unico che spacciava per informazione i regali pubblicitari: truffando tra l’altro anche la concessionaria SIPRA. Ci sono anche programmi come Verde Mattina, Linea blu, Linea Verde e tanti altri programmi che hanno come ospiti ditte, Comuni, Regioni, Aziende di Soggiorno...

 

 

 

Gli stessi cameramen dei TG, fino a poco tempo fa si dice,  vendevano per poche lire le riprese di insegne o marchi che venivano montate all’interno dei servizi. Mandavano magari il cognato o un cugino a fare l’offerta e, se un commerciante non sganciava il conquibus, tagliavano l’inquadratura del negozio in montaggio…

 

Circa un anno dopo Porto Cervo, Gianni Gennari aveva abbandonato la Rai e si era aperto un ufficio hollywoodiano di Produzione cine-televisiva. Mi invitò a portargli qualche soggetto per il cinema e io gli consegnai: “Avanti, Savoia!”

Esilarante storia di Gavino ed Evelina. Gavino, una specie di Robin Hood idealista e cialtrone, a capo di una “banda” di quattro disgraziati separatisti sardi, vuole finanziare con un sequestro eclatante il proprio movimento politico.

(Tanto, rapire uno di questi ricchi maiali non è sequestro di persona: abigeato è…) Gavino e i suoi sono appostati nei pressi della Costa Smeralda in cerca di una vittima. Evelina, unica erede di ricchi genitori del nord, deceduti in un incidente, litiga col fidanzato del momento e va a finire nelle braccia della “banda”. Resasi conto dell’assoluta inconsistenza dei suoi carcerieri e preda di un colpo di fulmine per Gavino, decide di stare al gioco: per mettere alla prova i suoi “amici” del jet set e per passare una vacanza diversa. In poco tempo, sentite le ragioni del risentimento degli indigeni, sposa la causa e, con efficienza tutta meneghina, diventa il vero capo- ombra del movimento. Scaricata dai falsi amici, imbastita la love story con Gavino, conosce un po’ della Sardegna vera e decide di comprare l’ultimo lembo di costa vergine, dove fondare un’impresa che dia lavoro a molti giovani sardi: senza inquinare, né rovinare la naturale bellezza. Sconfortata dagli insuccessi, pentita per essersi staccata dal dorato mondo dei Vip, decide di riconvertire il progetto originale e mette in cantiere l’ennesima lottizzazione. Ovvio litigio con Gavino e finale a sorpresa.

 

Gennari è entusiasta del progetto. Nel giro di una settimana è pronto per partire con la produzione. A un patto: il mio co-sceneggiatore DEVE essere Lino Jannuzzi (pezzo grosso ed eminenza grigia della massoneria, nonché inventore e ancora padrone di cicciopotamoFerrara). No, grazie. Qualche tempo dopo, il mio progetto diventa un filmaccio della Wertmuller: “Occhi a mandorla, profumo di basilicoenonsocheaccidentialtro”. Ovviamente non lo vide nessuno e credo stiano ancora pagando i debiti. Grazie.

Anzi, che dico?! L’assessore ragionale sardo, Gesuino Muledda, un comunista atipico e intrallazzone; lo stesso che mi aveva sempre negato qualunque contributo per i miei spettacoli che coinvolgevano la Sardegna intera e centinaia di migliaia di turisti; sganciò due miliardi alla craxista Lina per un misero ringraziamento all’assessorato stesso nei titoli di coda. Questo Muledda mi odiava e vi spiego perché. Prima ancora di conoscerlo personalmente e di chiedergli una qualsiasi forma di contributo, facevo dieci minuti dedicati a lui nei miei spettacoli. Così come dedicavo dieci minuti a Giorgio Carta e ad altri allegri assessori sardi. Le loro malefatte erano sotto gli occhi di tutti, gli sprechi anche e l’immobilità assoluta della giunta regionale di fronte ai mille problemi seri pure. Così, tra le altre facezie, presentavo il mio uomo al pubblico, sempre composto in prevalenza da turisti. “Si chiama Gesuino Muledda. Dove già Muledda non è granché ma Gesuino… andiamo! Meno male che se ne rende conto anche lui. Infatti vuol essere chiamato con un diminutivo, che secondo lui dovrebbe essere Gesù… ma chi lo conosce bene, preferisce chiamarlo Suino… Eppoi, Gesù sulla croce aveva solo due ladroni vicino, mentre Gesuino, haivoglia!”. Una sera, sul lungomare di Barisardo, fra le 40mila persone presenti c’erano anche Muledda e i suoi figlioli. Mi dissero che se ne andò seccatissimo, minacciando querele. La ritirata venne accompagnata dalle risate e dagli applausi dell’immensa folla di vacanzieri. Ci conoscemmo la mattina dopo. Il prefetto di Nuoro mi aveva invitato ad un pranzo. Ospiti, tra gli altri, il vescovo, due parlamentari e lo stesso Muledda. Davanti alla Pro loco o al Comune (non ricordo bene), il sindaco ci presentò, ma lui, rifiutandosi di stringermi la mano e senza nemmeno guardarmi disse al primo cittadino: “Beh, o lui o io.” Prontamente il sindaco gli strinse la mano e lo bruciò: “Va bene. Arrivederla, assessore.”

“Due a zero”, commentò la mia ragazza a voce alta.

 

Qualche giorno dopo l’incontro con Armandino ero a Nuoro per il processo intentatomi da Carta per oltraggio e diffamazione a mezzo stampa. Giorgio Carta era una palla di lardo innestata a maiale. Unto, sfuggente, con mascelle tritatutto e vestiti a forma di paracadute. Emanava un cattivo odore da pattumiera dimenticata in pieno agosto. Nessuno, vedendolo,  avrebbe potuto dire  che era una persona per bene. Nessuno, in qualunque modo, avrebbe potuto diffamarlo. Io mi ero limitato a scrivere uno dei soliti articoletti piccanti su una piccola rivista senza pretese che si chiamava "SU RAJU” (Il fulmine). Nulla di che. Pregavo l’assessore di smetterla di combinare danni e andare a casa. Dicevo che, nonostante le commistioni con certa stampa e certa tv privata (Grauso) pur di essere sempre presente e in vista, non godeva di nessuna popolarità. Infatti era l’unico politicante sardo che poteva uscire a Carnevale senza maschera: tanto non sarebbe stato riconosciuto da nessuno! Lo chiamavo “assessore alla carbonella”; visto che era addetto all’ambiente e foreste e che di foreste, da quando c’era lui, non ne era rimasta nessuna. Tutto vero! Sperperava un mare di miliardi in inutili e stupide campagne antincendio e più lui spendeva e lucrava con le mazzette e più aumentavano gli incendi devastanti. Una vera iattura. Lui, intendo. Quasi quanto gli incendi. Lo stesso anno, il WWF gli aveva assegnato il “Premio Attila”, come peggior assessore all’ambiente del cielo e della terra…

Mi presentai in tribunale senza un avvocato difensore. Mio coimputato era il direttore della rivista, che l’avvocato lo aveva. Un giovane legale sardista e separatista. Il Presidente mi chiese come mai mi fossi presentato senza la compagnia di un legale di fiducia.

- Chiedo scusa, - fu la mia risposta – ma non ho l’esperienza dell’assessore in fatto di aule di giustizia. Lui passa più tempo nei tribunali che a casa sua. E poi… io lavoro. – le risatine e il brusio dei commenti avevano aperto lo show. Il Presidente prese l’aria di traverso e cominciò a tossire. Si divertiva come un matto. Chiese all’avvocato del mio amico pubblicista se voleva assumere anche la mia difesa, d’ufficio, e lui ovviamente accettò. Ma parlai sempre io. L’avvocato del trucido Carta era un parlamentare del MSI, un certo Anedda. Era un tipo arcigno e segaligno che dava l’impressione di essere vergine e di soffrire parecchio per questo. Anedda era acido, con una smorfia  ulcerosa, il suo colorito giallastro faceva pensare a una pelle di daino secca e accartocciata. Con una forte e fastidiosa cadenza cagliaritana implorò più volte il Presidente di farmi smettere. Ma conoscevo il diritto quasi quanto lui e, pur esagerando con le battute cattive, restai sempre nell’ambito dei miei diritti e del galateo procedurale.

Il Presidente del tribunale e il PM La Speranza, rischiarono di andare sotto il bancone di giustizia per il gran ridere. Così il pubblico presente, richiamato dall’evento. Quasi tutti i sardi seguivano da tanti anni le mie guerre contro questi somari di amministratori regionali. Battaglie che lanciavo dalla radio, dai microfoni durante i miei spettacoli e attraverso la stampa.

Venni naturalmente prosciolto per non aver commesso il fatto. L’assessore venne condannato al pagamento delle spese processuali e il Presidente mi informò che, qualora mi fossi sentito offeso o danneggiato, avrei potuto adire le vie legali per chiedere eventuali danni al Carta. Il viscido sbuffava fumo dalle orecchie. Ma non era ancora finita. Mentre tutti stavamo per abbandonare l’aula, con pause e tempi da vecchio mestierante, dissi con voce stentorea:

-         Chiedo scusa, signor Presidente… - tutti si bloccarono e mi guardarono divertiti e ansiosi di sentire l’ultima sparata. Li accontentai subito:

- Io sono venuto fin qui con la mia macchina e a mie spese. La benzina l’ho pagata io. Quello lì è venuto con una macchina della Regione e accompagnato da un autista pagato anche da me. E giusto questo?-

-         Brutto figlio di…- fece in tempo a sibilare “quello lì”, ma fu prontamente stoppato

dal suo azzeccagarbugli e allontanato a forza. L’ultima risata generale lo scortò fino all’androne del palazzaccio.

 

 

 


VIII

 

Tornai a Roma

 

 

 

 

 

La cosa più bella della Sardegna è il mare. Che non a caso comincia proprio dove finisce la Sardegna…

P.Filigheddu (Filosofo e mio braccio destro)

 

 

 

 

Tornai a Roma, da Porto Cervo e dal processo sardo, per scoprire che alla Rai mi avevano scippato l’ennesimo programma: Il Circo, scritto con Velia Magno, già regista di Senza rete.

 

Avevo parlato, tempo prima, con Velia dell’idea di un varietà senza l’ormai insopportabile: «Ed ecco a voi…». Sbertucciato anche da Fellini, qualche anno dopo, con Ginger e Fred. E quale occasione migliore per ricreare in studio una tipica sagra paesana? (Guardì ci sta facendo seimila programmi tutti uguali su quella falsariga!) Avremmo avuto una sit-com portante, interpretata da me come padrone di questo piccolo circo scalcinato.

Presentatore, con occhi spiritati e voce sgranata: «Imenso pubbrico (otto persone annoiate), iscusate che questa sera non potiamo fare l’ispetacolo compreto, perché si hanno rubato la valigia con tuuuta l’attrezzatura…Lei, siniore non si è diverso? E che me ne frega a me? Lei sordi mi ha dato a me? No! Ha pagato alla cassiera e allora, si vada a divertire con lei!». Armando, questo il nome del personaggio (già collaudatissimo negli spettacoli dal vivo e alla radio sarda), oltre a presentare sarebbe stato un clown tuttofare improbabile. Un’attrice comica o brillante avrebbe impersonato la moglie di Armando e due comici giovani: la figlia Shirly, cassiera-trapezista, «domatrice» di un cagnolino riottoso e dormiglione (il papà di Hasfidanken…), e il figlio Sergio, detto Verme, magrissimo ma sempre intento a mangiare. Sergio sarebbe stato clown di spalla, domatore di un asinello sardo «feroce», e giocoliere negatissimo. Le vicende famigliari ed i numeri scarsi avrebbero fatto ridere, e la musica l’avremmo avuta dal palcoscenico allestito nei pressi del tendone. Avremmo visto passare, puntata dopo puntata, tutti i gruppi o i cantanti top del momento.

Velia, entusiasta dell’idea, mi invitò da lei a Napoli per stendere insieme il progetto. Progetto che presentò lei a non so chi, ed io ai soliti referenti. Ci fu rubato. Lo chiamarono Lo Scatolone, lo destinarono a Raitre e lo affidarono a Lando Buzzanca: un fiasco.

 

Il dirigente della neonata Rai Tre, Nanni Mandelli, mi mandò a chiamare per una particina consolatoria: in pratica — grande idea degli «autori»! — mi sarei dovuto presentare con alcune pecore e infastidire sessualmente, con allusioni e doppi sensi, la cassiera. Chiaramente li mandai a cagare e dimostrai a Mandelli che il programma era mio e che Buzzanca, Pazzaglia & C., ne stavano facendo uno scempio (oltre a sottrarmi centinaia di milioni di diritti d’autore). Ebbe anche lui a che ridire coi suoi superiori e per questo, credo, terminò la sua esperienza lavorativa con la Rai. Passò a EuroTV, poi a TMC, anni dopo. Il mio nome intanto cresceva. Nell’ambiente, in campo nazionale, ero dato come il “numero uno - che esplode da un momento all’altro”. Un locale romano, ex Alberichino (lanciò Benigni), riattato con un paio di miliardi dal figlio di un ministro dello Spettacolo, si chiamò ROMA IN. Era uno stupendo locale liberty in pieno centro. I gestori le avevano provate tutte per farlo decollare, ma niente da fare: nemmeno culi e tette tiravano più di tanto. Qualcuno ebbe la bella pensata: “Gli ultimi fasti, questo locale, li ha visti con un grande comico, cerchiamo un altro grande comico per rilanciarlo.” Fu così che, dopo decine di prove e provini, approdarono a me. Debuttai al Roma In l’8 dicembre del 1984 e fu un trionfo. Pezzi grossi della Rai, attori quali Antonella Steni, e importanti giornalisti erano venuti per vedere gli altri colleghi: Saccarola, Mosca, D’Ambrosi, Carlaccini: da anni sulla piazza romana. Presi il microfono e presentai me stesso e la mia terra di provenienza. In quarantacinque minuti a braccio, li feci finire tutti sotto i tavoli per il gran ridere e in piedi poi per un’interminabile standing ovation. I “colleghi” se ne andarono senza esibirsi e senza nemmeno salutare. I giorni successivi ebbi straordinarie critiche sui giornali. Fine. Non successe null’altro. Anzi, successe che alcune mie battute di quella sera entrarono stabilmente nel repertorio di quasi tutti gli imitatori e comicaroli italiani. “Le mie idee sono le mie puttane” diceva il poeta francese. Ma le puttane si pagano! O no?

 

Nel settembre del 1990, un certo Claudio Renda, un agente poco onesto (almeno con me), mi propose di lavorare al nascente: La TV delle ragazze per Rai Tre. Erano tutte donne, ma avevano bisogno di un autore vero e di un personaggio forte che servisse da ariete: il programma era azzardato. Il curatore del programma era entusiasta dell’idea, ma appena seppe il mio nome, non se ne fece più nulla. Chi era il dirigente? Ma Bruno Voglino, naturalmente!

Nel frattempo, tra il 1986 e il 1990, ero molto cresciuto artisticamente. Gennaro Ventimiglia, un autore ex Rai, mi aveva segnalato ad Antonio Ricci. Ricci mi aveva inseguito quotidianamente per tre mesi al telefono, ma io ero titubante: il suo Drive in non mi faceva impazzire. Alla fine, visto che le cose per la Cooperativa giovanile che avevo fondato in Sardegna non andavano per nulla bene, accettai di andare alla Fininvest. Feci, con molto successo, due stagioni di Drive in, decine di ospitate e, da settembre a dicembre del 1990, Striscia la notizia. Questi programmi mi avevano guadagnato Telegatti d’oro e tanti riconoscimenti da parte della critica e del pubblico. Il pubblico mi adorava. Tutta l’Italia usava (ed usa ancora) la mia discrasia linguistica “CAPPITTO MI HAI?!”. In ogni programma dove andavo a fare l’ospite d’onore, l’audience si impennava (Odiens, Studio 5, Buon compleanno Canale 5, Regalo di Natale, Risate di Capodanno, Campione d’Italia della risata, Il gioco del 9, etc.) Ma da Striscia la notizia fui defenestrato per ordine di Craxi e Cossiga: era appena scoppiato il «caso Gladio», e i magistrati erano in fermento; era anche in predicato il rinnovo delle frequenze del Cavaliere, nonché le Telepiù e l’affaire del cosiddetto «lodo Mondadori». Io con la mia satira davo molto fastidio: anche perché facevo giornalmente dai 12 ai 16-18 milioni d’ascolto. Ho avuto la fortuna di vedere, in camera caritatis, i tabulati ufficiali dell’AUDITEL, a casa dell’allora amico Gianni Pilo, capo assoluto dell’ufficio Marketing della Fininvest. I dati erano riservatissimi, ma noi si cenava a casa di Pilo almeno una volta a settimana e lui non perdeva occasione per darsi arie e per ribadirmi che “il presidente tiene molto a te”.

 

 

Berlusconi invece, nonostante i miliardi che gli portavo ogni giorno aumentando lo share di cinque-sette punti con le mie apparizioni, mi scaricò: un po’ per le telefonate dei due ras e soprattutto perché mi ero rifiutato di trasformare il mio fortunatissimo personaggio: La PEPPA, da zia di Cossiga e talpa al Quirinale, in zia di Scalfari. C’era il lodo Mondadori da risolvere… e loro, pare, avevano già pagato alcuni giudici. Non dimentichiamo le date. E questi signori, Antonio Ricci d’accordo, volevano scatenare il loro personaggio di punta contro l’odiato Eugenio Scalfari. In studio trovai la scenografia modificata, con delle sbarre davanti al mio set. La gag avrebbe dovuto essere: lei, Peppa, ci ha mentito, ecco perché è finita in prigione. Si è spacciata per la zia del Presidente della Repubblica, invece è solo la zia del direttore de La Repubblica. E giù battute contro Scalfari. Per stima e rispetto verso l’uomo e il giornalista e per una questione di pulizia morale mi rifiutai. Testimoni, oltre a tutto lo staff, le figlie piccole di Antonio Ricci, venute apposta da Alassio per conoscere me. Ma questa è un’altra storia, che racconterò in un altro libro che si chiamerà: Quattro anni nel mondo dei gabibbi.

Del mio forzato allontanamento dalla Fininvest parlarono ampiamente quotidiani e riviste dell’epoca. E fu proprio grazie ai giornali che, nel settembre 1991, Carlo Fuscagni, diventato nel frattempo direttore di Rai Uno, venne a sapere che ero libero e mi chiamò a Roma (finita Striscia, ero ritornato a vivere a Cagliari). Ci incontrammo alcune volte, per conoscerci, poi finalmente nel febbraio del 1992 mi convocò per “grandi notizie”.

Elegante e profumato come sempre, mi ricevette nel suo ufficio e, presente il consigliere di amministrazione senatore Grazioli (DC), mi fece pressappoco questo discorsetto:

“Caro Salis, ti ho chiamato perché sei un big che ha molto seguito di pubblico, molto carisma, ma soprattutto perché sei un autore brillante, una vera miniera di idee. Questo Mentana, col suo TG5, ci sta portando via un sacco di telespettatori; e ogni punto di share che perdiamo in prima serata, sono miliardi che se ne vanno dall’altra parte.

La SIPRA ci sta facendo un casino e dobbiamo porre un argine, quindi se tu mi dai qualche idea per un pre-serale, un traino forte per il TG, io onoro il tuo «ritorno a casa», da Mamma Rai con un bel contratto triennale da un miliardo l’anno. Che ne dici?”

Meglio di un calcio di mulo sui coglioni, pensai.

In realtà, non era un gran cifra, visti i sette miliardi regalati alla Carrà per contare fagioli ed altri numerosi precedenti, ma ero disoccupato… Quindi accettai, tornai a Cagliari e mi misi subito al lavoro. Quindici giorni dopo ero pronto. Chiamai Fuscagni, che mi diede un nuovo appuntamento a Roma. Era la seconda metà di settembre. Gli portai i progetti (che sono poi diventati, non so come: Telegiornale zero di Chiambretti, La testata di Mirabella, Il fatto e Una Storia di Biagi (avrebbero dovuto essere strisce satiriche…), ma lui sembrava cambiato nei miei confronti.

Non accennò al famoso contratto promessomi solennemente, anzi, quando gliene parlai, glissò. Poi, in un impeto di dignità (eravamo soli nel suo ufficio), mi confessò che non era possibile impormi in prime time (prima serata), che «io non avevo santi in paradiso», che però non voleva perdermi e quindi, davanti a me inebetito, chiamò un capo struttura, Luciano Scaffa, che ci raggiunse subito nell’ufficio al quinto piano e mi offrì di lavorare con lui.

Io non volevo tornare a casa a mani vuote. Avevo bisogno di un lavoro, perciò accettai. Seguii il lardellante Scaffa nel suo ufficio, dove lui mi parlò di un progetto niente male: visto il discreto successo di Uno mattina, perché non prolungare e fare, dalle 14 alle 19 circa, Uno pomeriggio?

Sarebbe stato un contenitore interessante e buono per un mio rilancio. Inoltre mi avrebbe permesso di portare a casa quasi mezzo miliardo di cachet (quattro milioni a puntata), più i diritti Siae (circa 180.000 al minuto!).Scaffa  mi garantiva 35 minuti tutti per me, sulle oltre cinque ore di trasmissione. Comunque… Altri cinquecento milioni lordi! Il programma sarebbe partito il 1° Marzo ’92 e sarebbe andato in onda fino a tutto Maggio, per poi riprendere a Settembre e durare sino al Giugno successivo: una pacchia!

Ai primi di Gennaio ’92, partii per Roma con la mia collaboratrice, Monica Cirronis, assunta dalla Rai come consulente a sei milioni lordi al mese, più le spese. Mi avevano concesso anche di assumere, con le stesse modalità, il mio collaboratore di sempre, prof. Pierangelo Filigheddu.

Grande fu la mia sorpresa, quando scoprii che la redazione e gli studi del programma non si trovavano a via Teulada o alla Dear, ma alla DOMUS MARIAE, un palazzo del clero sulla via Aurelia. Vicino alla mia residenza ( la Rai mi aveva prenotato ancora all’Holiday Inn, 286.000 a notte!). Ero un VIP! Qualche giorno dopo mi trasferii al residence confinante: tre milioni al mese per due loculi e per il disservizio più ignobile del mondo! Una cameretta da letto e un saloncino con angolo cottura. Il cucinotto aveva due piastre elettriche, ma non si poteva fare un piatto di spaghetti se non in due tempi. Ad accendere contemporaneamente le due piastre, una per l’acqua e una per il sugo, saltava regolarmente la luce. Gli asciugamani e le lenzuola erano infetti. Mi presi dei fastidiosissimi funghi e girai per tre mesi con delle piaghe allo scroto. Quel residence pretenzioso mi aveva letteralmente rotto i coglioni.

Alla Domus conobbi i miei colleghi: una vastissima schiera di raccomandati senza arte né parte, che, tranne un paio, non avevano la minima idea di come si dovesse fare questo lavoro. Cito per tutti un certo Dott. ALDO TIRONE, autore, sfuggito alacremente ad ogni tipo di cultura. Tirone, mentre io e la mia collaboratrice ci davamo da fare per montare (inventare) il programma, passava le ore al telefono per sistemare i suoi figli o parlando con casa o parlando col suo elettrauto, etc. IN TRE MESI NON HA CACCIATO L’OMBRA DI UN’IDEA!!! Un personaggio alla stregua dei migliori traffichini impersonati da Alberto Sordi, insomma. Ma molto meno simpatico. Questo Tirone lavora da tempo immemorabile alla Rai come Autore, con qualunque direzione. Perché? Altro raccomandato di ferro: il nipote di Cossiga: Gianfranco Agus, sedicente presentatore, sciapo e impresentabile. Lavora sempre anche lui.

Solo nel 1996 ha percepito ufficialmente dalla Rai £142.706.000! ( Mi diceva Brando Giordani, allora direttore di Raiuno, che Cossiga chiama tutti i giorni personalmente i direttori di rete, per perorare la causa del suo nipotino. Questo lo ha detto davanti a testimoni, tra i quali l’Avv. Dino Quaglietta). Oltre a questi signori della redazione, facevano parte del gruppo: un certo Carlo Conti, pupillo dell’ex senatore GRAZIOLI, nonché il prezzemolo sponsorizzatissimo: Maria Teresa Ruta. Arrivavo in redazione e cominciavo a spulciare i giornali e le riviste della “mazzetta” che la Rai ci faceva recapitare puntualmente, e puntualmente mancavano le riviste più importanti per il mio lavoro: qualcuna delle impiegate le aveva già imbertate per portarsele a casa. Gratis.

Altra nobile attività delle signore della redazione era quella di ricordare passate esperienze comuni di lavoro, e che fine avrà fatto Tizio e se si è sposato (separato) Caio, o parlare per delle ore al telefono (o tra di loro)  di guai familiari, o ricette et similia… di lavorare, nemmeno a parlarne! Un ufficio ministeriale qualunque, insomma. Ero scandalizzato; ma Scaffa aveva la sua corte – era tutta gente sua – e guai a lamentarsi con lui. Un altro pseudoautore, di cui taccio il nome per misericordia, venne fuori, oltre che con le solite baggianate trite, con un’idea geniale: IL  DILEMMA!

Intervistiamo, regalando milioni (naturalmente) le persone per strada con domande del tipo: “Se lei scoprisse che il suo migliore amico (suo padre – sua sorella ) ha il cancro, glielo direbbe o no?”

(sic!) Poi, naturalmente, questa bella idea doveva proseguire via telefono – come filo conduttore dell’intero programma – per essere chiusa da un  “esperto”… Questo era il livello! Un giorno, non ne potei più e affrontai gentilmente, ma decisamente, il sedicente autore. Cercai di spiegargli che la televisione era altro, che il pubblico non è manzo, eccetera. Questi si inalberò e mi gridò sul muso che lui aveva qualche anno più di me e che lui aveva scritto quattro romanzi (che cazzo c’entra con la TV?!). Visto che a lavare la testa all’asino… presi un foglio bianco e scrissi a stampatello:

“CINQUECENTO ROMANZI” , lo feci vedere a tutti i presenti che avevano assistito alla sfuriata, infine glielo consegnai:

- Visto? Tu hai scritto quattro romanzi, io cinquecento. - Uscì sbattendo la porta, tra le risate generali. La sera stessa, Scaffa mi fece un amorevole cazziatone: il famoso scrittore era persona protetta e non poteva essere ridicolizzata in pubblico. Visto l’andazzo, io lavoravo come un matto, in redazione e fuori. Ogni sera mi sentivo al telefono con Filigheddu, trattenuto a Cagliari: sapevamo benissimo che avremmo dovuto fare tutto noi; ad onta dei soli 35 minuti di diritti! Scoprii che la RAI, pur avendo studi vuoti, pagava cifre iperboliche d’affitto alla Domus (un modo per finanziare la corrente DC referente di Scaffa?). Dal suo ufficio, davanti a me – unico presente - Scaffa chiamò un deputato DC e lo pregò di mandare a prendere la cassetta col suo spot elettorale: fatta da personale Rai durante le ore lavorative e con apparecchiature della RAI. Senza pudore, si rivolse a me: “Così va il mondo”. Ero da lui per accelerare la stesura dei contratti: avevo un brutto presentimento. In redazione, scoprii anche come la Rai si compra le critiche dei giornalisti amici: infatti, assunti come consulenti (di che?) a sei-otto milioni al mese, ogni tanto facevano la loro apparizione GIANCARLO RICCIO (dopo qualche tempo… stranamente… assunto in pianta stabile), CLAUDIA VINCIGUERRA, e un’altra donna che non ricordo.  Questa Vinciguerra, de IL GIORNO (secondo una felice descrizione di Curzio Maltese) è una: “ coatta  assalitrice di buffet e questa è la sua più preziosa dote giornalistica”. Però è molto amica di Guardì e prende spesso parecchi soldi dalla Rai. Naturalmente scrive voluttuose critiche sul conto di chi le dà milioni e stronca gli altri.

Il giorno del mio compleanno, il 5 marzo, riunione plenaria alla Domus. Io arrivo carico di dolcetti sardi e spumante e Scaffa ci dice che il programma salta: “…l’Azienda non ha soldi. Però non preoccupatevi, vi sistemo in altre produzioni nel giro di una settimana.”

Mantenne la parola: TUTTI vennero piazzati in altre produzioni, da lì a poco. Tutti,  tranne Monica, Pierangelo, Giovanni Messina, e il sottoscritto. E dopo mesi di lavoro, col programma pronto, non avevamo nemmeno uno straccio di contratto!

Seppi poi, che il buon Cossiga aveva fatto in modo che io non lavorassi ancora. Ero il primo della sua lista nera. Devo una spiegazione: Cossiga è separato da anni. La sua ex moglie si chiama Donna Peppa. Lui fa il galletto colle ragazze giovani (vedi amicizia fraterna e non casuale con Boncompagni  e guadagni stratosferici di quest’ultimo genio della TV: vedi MACAO. Gianni, si dice, può ricattare il picconatore…). Inoltre, pare, il Presidente aveva una storia con una signora irlandese. Io a “Striscia” facevo “La Peppa”: nelle prime due puntate mai andate in onda, La Peppa era la moglie del Presidente della Repubblica picconatore che nessuno ci invidiava. Berlusconi, dietro “invito pressante” di Sergino Berlinguer (anima nera di Cossiga al Quirinale), censurò personalmente  “la moglie” e la fece diventare “zia di Cossiga e talpa al Quirinale”: una bomba comunque! Il cavaliere mi mandò a dire che la differenza tra moglie e zia non si sarebbe notata, in quanto la forza ero io qualunque personaggio avessi interpretato. Peccato…

Cossiga era stato zitto per tre anni, poi era cambiato il tempo o lui era scivolato da qualche scalinata ed ecco che cominciò a sparare le sue, ormai tristemente famose, coglionate. Io avevo preparato un gustosissimo sketch sulla moglie. In pratica: aveva ricevuto lei la lettera di nomina a Presidente e aveva posato la busta sul mobile dell’ingresso:

La prima volta che mi porta fuori, gliela consegno…” Erano passati tre anni! Appena Francesco seppe della nomina e si fu fatto confermare da Craxi e Andreotti che era tutto vero, non si frenò più e venne fuori la sua vera, sclerotica, personalità.

Se a questo aggiungiamo la mia satira sui suoi comportamenti politici, in Sardegna e non, fino a Gladio, che regolarmente faceva parte dei miei spettacoli teatrali… ecco spiegato l’odio di questo  signore nei miei confronti.

Ancora: quando lui faceva i comizi, dalle parti del suo paesello, erano presenti un centinaio di persone (non è molto amato), negli stessi posti, per i miei spettacoli, venivano dieci-quindici mila persone. La battuta più tenera che gli riservavo, quando lui era già presidente, era questa:

< Vedrete che non si accontenterà. Vorrà essere nominato Imperatore. E vorrà la sua faccia sui francobolli! Il casino sarà: chi spiegherà ai cittadini che bisognerà sputare dietro ai francobolli? Sennò non si attaccano...>

Il pubblico andava in visibilio.

E lui è permaloso e vendicativo.

Ricordo una volta, avevo tre serate nei dintorni di Sassari. Io e tutta la mia carovana quattro automobili e un camion: tra musicisti, tecnici, altri attori, eravamo circa venti persone, fummo fermati da una macchina dei carabinieri all’ingresso della città. Scese un graduato e, accertatosi che io fossi realmente Lucio Salis, mi pregò di attendere e tornò con un Colonnello o un Generale (non sono granché per i gradi. A meno che non siano quelli del Cannonau…)

I miei musicisti mi circondarono per assistere alla scena. Il pezzo grosso gonfiò il petto, mi puntò un dito contro e tuonò:

“Lei non si deve permettere, ha capito bene? Non si deve assolutamente permettere di nominare il Presidente della Repubblica nei suoi spettacoli. Uomo avvisato…” girò sui tacchi e se ne andò, seguito dai suoi sottoposti.

I miei ragazzi si guardarono tra loro, poi guardarono me e, conoscendomi bene, cominciarono a rotolarsi per terra in preda a risate irrefrenabili.

“Cèssu! –ripetevano – Ge ddas fatta bella!”

(Gesù! Cos’ha combinato! ) – il generale, naturalmente.

Aprii lo spettacolo di quella sera così:

< Scusate, ma siccome non sono di queste parti e voi lo conoscete sicuramente meglio di me… ma… Cossiga… è un coglione? (altra pausa, sull’oceano di risate e applausi) No, chiedo. Mi piace essere informato. Dalle vostre reazioni si direbbe di sì. E parecchio anche! (altro uragano da parte del pubblico). Sia chiaro: non ho dato del coglione al Presidente della Repubblica; ho solo chiesto un parere. Avrei anche potuto confermare io stesso. Ma conosco la legge e so bene che se l’avessi fatto avrei commesso un reato… No, mica oltraggio. Divulgazione di segreto di Stato! (altre risate) Bene. Parliamo di cose serie… E cominciavo lo spettacolo.

 

Detto questo, torniamo alla Rai e a Uno pomeriggio. Soltanto dopo mesi di battaglie, il 25 settembre venni liquidato dalla Rai con 60 milioni lordi, grazie “all’interessamento” del mio pseudo-manager – tale Totò Jacobone, di Formia. Il manager (ma io lo chiamavo scherzosamente magnacer. Ora non ci scherzo più…) trattenne per sé IN NERO venti milioni! In pratica, tolte le trattenute e il furto di Totò, dei sessanta milioni lordi intascai circa dodici milioni. Cioè una piccola parte della cifra da me spesa in viaggi e permanenza a Roma, per me e la mia assistente. La Guardia di Finanza mi perseguitava perché voleva dodici milioni di IRPEF da me per quell’incasso: praticamente tutto…

Filigheddu non vide una lira e la Cirronis prese circa tre milioni. Del contratto, dei miei mancati guadagni, della mia perdita d’immagine, dell’indotto sfumato, dei diritti d’autore persi, non si parlò MAI! Io accettai di firmare “senza nulla più aver a pretendere…” soltanto perché in stato di grande indigenza. Un avvocato mi disse che potevo citare la RAI per USURA o per ESTORSIONE. Non lo feci, per paura delle ovvie ritorsioni.

 

Cercai, invece, di tornare ad imbastire un rapporto con Carlo Fuscagni. Ma Fuscagni e Grazioli negarono di avermi promesso il famoso contratto triennale.

“Ci dev’essere stato un equivoco…” mi disse, seccato, Carlo Fuscagni.

In quell’occasione gli chiesi indietro sette cassette VHS, da lui chiestemi mesi prima; sette  videocassette da 180 minuti l’una in cui era contenuta TUTTA LA MIA CARRIERA TELEVISIVA: “ Non le trovo più.” Mi disse ( procurandomi un danno gravissimo), e mi scaricò. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                                                              IX

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Grazie all’avv. Guido Bosco

 

 

 

 

 

Non hai neanche il calibro di

un fagiolo messicano e già ti tartassano.

 

Daniel Pennac (Ultime notizie dalla famiglia)

 

 

 

Grazie all’avv. Guido Bosco, potentissimo agente cinematografico, provai a lavorare con un parente di Fuscagni il produttore indipendente Adriano Ariè (che tramite il dirigente e altre amicizie ha fatto e fa tanti miliardi con appalti Rai). Mi ha fatto lavorare ad una sceneggiatura e non mi ha mai pagato. Peggio: mi ha dato da correggere la sceneggiatura (illeggibile, vuota, insulsa, scritta da non so chi)  della “puntata pilota” di DON FUMINO. Nelle loro intenzioni Don Fumino avrebbe dovuto far ridere. In effetti, faceva ridere Ariè, Montagnani e tutti coloro che intingevano il biscotto nel piatto dei soldoni. Ho dovuto sudare sette camicie per dare a quel guazzabuglio di stupidaggini una parvenza di dignità e per renderlo divertente, senza stravolgere l’impianto originale (che era da buttare). Non solo Ariè non mi ha pagato, ma si è sempre negato al telefono e alle mie visite a sorpresa. Aveva appena intascato due miliardi e mezzo di anticipi dalla Rai (dalla rete diretta da Fuscagni, appunto…), per conto, disse, di Proietti, Montesano e Renzo Montagnani, che avrebbero dovuto fare Don Fumino e delle fiction. Prassi un po’ strana.

Luciano Scaffa, dopo tante vane promesse,  se n’è andato in pensione (lauta) e si è aperto una sua produzione televisiva che, guarda caso, lavora per la Rai: quanto porta a casa annualmente? E’ regolare?

 

Io ormai abitavo a Roma e la mia famiglia a Cagliari. Mentre cercavo con tutte le mie forze di rientrare nel mondo del lavoro, mia moglie si stufò e disgregò la famiglia, dicendo ai miei tre figli che loro padre era un fallito. Questo è un altro regalo dei sigg. Voglino, Fuscagni & soci.

Le mie due figlie maggiori hanno ripreso a parlare con me da poco tempo.

Sorvolando sulle proposte oscene che mi venivano fatte settimanalmente, nel corso delle mie visite a viale Mazzini, arrivammo alla primavera inoltrata. Mi barcamenavo come potevo, senza una lira. Un giorno, un conoscente mi convinse a prendere un autobus, mi spostavo prevalentemente a piedi o in metropolitana, e mi disse, paga tu. “Ma io non esco mai con tutti quei soldi appresso” risposi.

Nel ’92 Conobbi Pupi Avati, che, dopo svariati provini, mi scelse per una parte da protagonista nel suo film MAGNIFICAT. Paga offensiva, ma meglio di niente. Mi stupì subito il fatto che Pupi e Antonio, uomini bigottissimi, fossero così gretti e volgari. Antonio specialmente era sempre a caccia di topa facile. Nei primi dieci minuti di lavoro, dovevo camminare scalzo dentro un torrente, mi penetrò una sottile scheggia di legno lunga due centimetri nella pianta del piede sinistro. Bene, lo seppero subito, ma mi fecero tenere la scheggia fino alla fine della lavorazione del film! Capisco la proibizione a lavarsi per dieci giorni, il film era ambientato nell’anno mille… Ma la scheggia? Memorabili i cestini per il pranzo: pane e purea… Meno male che godevo di una certa popolarità e i contadini umbri – giravamo in Umbria – mi riempivano quotidianamente di pane e vino casarecci e buon formaggio e prosciutto fatto da loro. Dividevo tutto con tecnici e comparse. Un giorno si avvicinò Antonio:

- Mò guarda come si tratta il nostro Lucio! Posso assaggiare? –

- Sgomma. Vai a mangiare il purè. –

 

Finito il film, Avati mi propose di lavorare in uno show TV, prodotto da lui e suo fratello Antonio, per TMC.

Lavorai così per tre mesi invernali al programma “T’AMO TV”, con Fabio Fazio e tanti altri, per la regìa di Rita Vicario. Anche qui, paga da fame e frustrazioni artistiche: ero l’unico del gruppo che sapeva fare TV – e l’aveva dimostrato per anni!-  ma  Antonio Avati non se ne dava per inteso; credendosi il genio della lampada (ma era lo scemo della lampadina), rovinò un lavoro che avrebbe potuto darci un bel successo; e che invece passò inosservato. In pratica avremmo dovuto condurre io e Fazio: lui a fare il bravo presentatore e io a disturbare e punzecchiare. Lo studio era disseminato di televisori accesi. Insieme a numerosi ospiti, sempre differenti, oltre a un gruppo di pseudocomici amici di Fazio e di Antonio, guardavamo le varie stazioni  tv in diretta e si commentavano gli altri programmi. Grande idea, se fatta con peperoncino. Inutile e dannosa, realizzata in maniera soporifera e lecchina. Come avvenne. La poca gente sintonizzata sul nostro noiosissimo programma, appena vedeva una cosa più attizzante su un'altra rete, ci mollava. Giustamente. Perché? Ma perché Antonio, d’accordo con Fazio, aveva deciso che la mia personalità era troppo ingombrante. Io andavo a braccio ed ero caustico e tagliente, come piaceva a me  e come il pubblico aveva sempre dimostrato di gradirmi. Così fui relegato in un angolino di pochi minuti e appiccicato a fine blocco. A ridosso della pubblicità. Così potevano spegnermi a piacimento. E così fecero. E il programma crepò.

 

Una cosa importante: essendo in ristrettezze economiche (viste le paghe risibili e i miei precedenti), a lavoro finito chiesi alla Siae i miei diritti per i testi presentati a T’AMO TV. La Società degli Autori mi rispose che non risultava nessun programma televisivo andato in onda con quel titolo. Mi recai all’EUR, presso la Direzione Generale della SIAE, con una videocassetta registrata ed alcuni ritagli di giornali e dimostrai la legittimità della mia richiesta. Il dirigente Rampini, cadde dalle nuvole. Cosa era successo? Semplice: qualcuno aveva barato e si era fottuto un pacco di soldi. Chi?! Mah! TMC sosteneva che aveva versato alla DUEA, la società dei fratelli Pupi Isacco e Antonio Abramo Avari (come li chiamavo io) circa TRE MILIARDI, per avere il programma chiavi in mano. Per cui LORO DUE avrebbero dovuto pensare a tutto: anche al versamento della quota spettante alla SIAE. Costoro, invece, fecero una magia e si tennero il malloppo. Naturalmente, diedero una bella fetta al complice Fazio, forse a qualche alto funzionario o dirigente di TMC (vallo a sapere…) e una mancetta ai cosiddetti autori del programma (tra i quali figurava anche il genio compreso Antonio, oltre a un certo Massimo Martelli). Questo Martelli (potenze del cognome!), oltre a scroccarmi qualche cena, si segnava tutte le battute che regolarmente elargisco nei miei cazzeggi a tavola e rivendeva il tutto – come materiale suo (!) – a comici di giro, tipo tale Vergassola. Morale: nonostante questi signori siano tutti iscritti regolarmente come autori alla Siae, e nonostante lo Statuto della Società non deroghi circa l’obbligo di noi Autori di depositare tutto il materiale per il quale chiediamo poi i giusti diritti e la giusta tutela, NESSUNO di loro  aveva mai depositato nulla di un programma andato in onda quotidianamente per tre mesi…

Il dirigente SIAE Rampini che cosa ha fatto per segnalare o punire gli inadempienti? Esistono sanzioni precise per chi trasgredisce lo Statuto. Tutto tace: e questo è un altro mistero. Ma è stata terribile la guerra tra DUEA e dirigenti e funzionari di TMC (Principini, ex raista amico di Guardì, si è precipitato più volte all’EUR per impedire che mi venisse liquidata una sola lira). Cosa c’è sotto? Chi ha commesso irregolarità? La cosa più interessante, però, è questa: in una delle puntate venne ospite Carlo Fuscagni… e, alla domanda di Fazio: “Chi prenderebbe a Raiuno tra tutti questi comici?” Lui rispose, in diretta TV: “Salis. Senza ombra di dubbio. Me lo porterei via subito!”

Invece prese, l’anno successivo, Pino Strabioli, che comico non è, e lo piazzò a Unomattina. E ancora sta lì.

 

Da allora, ripresi a frequentare la Rai, cercando di incontrare Fuscagni. Inutilmente. Dall’ottobre-dicembre ’91, fino al 19 gennaio ’93, incontrai ed ebbi promesse da un sacco di gente: i politici  Rojch, Viti, Carra, Follini e Pisanu, Grazioli , Misasi (uno dei padrini di Fuscagni), tutti della  DC; Vita e Gesuino Muledda, del PCI (nonostante il suo antico rancore, promise di parlare con Gavino Angius, suo sponsor e pezzo grosso della direzione del partito).

Intanto continuavo a scrivere e a produrre idee nuove. Il 19 gennaio ’93, finalmente, mi diede appuntamento Fuscagni! Ma non si fece trovare. Il 22 gennaio terminai “ T’amo TV”.

26 gennaio, ore 16,30: nuovo appuntamento con Fuscagni. Come sopra. Ma io non mollo.

E così, il 3 febbraio mi invita a P.zza del Gesù, alle 18,30, il sen. Grazioli e mi promette che sistemeranno tutto ed avrò finalmente il mio contratto e il mio posto alla Rai. Alle 11,30 dello stesso giorno, mi ero incontrato col potentissimo Michelangelo Cardellicchio. Cardellicchio, ne parlò tutta la stampa, era il miracolato fanfaniano che si era addormentato usciere a Roma e si era svegliato, la mattina dopo, Direttore per la Sede Regionale Rai per la Sardegna! Appena arrivato a Cagliari, novello Lorenzo il Magnifico: fece trasformare due o tre volte di fila tutta la struttura edilizia della sede, con gran goduria dell’impresa edilizia. Finì poi per riprodurre un bunker tale e quale a viale Mazzini. Un vero duce! Ovviamente, di radio o di TV non capiva una mazza. Era bravissimo, però, a diventare ricco in fretta. Diede programmi (e soldi) a tutte le mezzeseghe ripudiate dalle altre sedi nazionali e regionali. Quelli con la raccomandazione forte ma non troppo, insomma.  Fu una specie di calata degli Unni. Comprò un mega appartamento nel centro di Cagliari e una sontuosa villa a S. Margherita di Pula, dove ospitava anche il Biagione Agnes in person. In questa villa, si dice, organizzava festosi baccanali con ninfette indigene e non solo. Una di queste, molto carina con Agnes, ora conduce un TG nazionale. Controvoglia, ma la mia popolarità era troppo forte, nell’87 Cardellicchio mi consentì di fare la PRIMA striscia satirica nella storia della TV italiana – 5 minuti – per lanciare l’ascolto del TG3 regionale. Lui poi è finito nei guai con la giustizia, anche in galera, credo. Cardellicchio, tornato a Roma e sistematosi in una reggia di fronte alla Rai di via Teulada, era Capo del supporto tecnico della Rai. Quella mattina, il fraterno amico di Fuscagni, conoscendo il mio valore (in Sardegna gli avevo quasi triplicato gli ascolti!), si lanciò in promesse, promesse.

 

 

Il 19 aprile parlo telefonicamente col direttore di Raitre, Angelo Guglielmi, di un mio progetto: “UN CAFFE’”. Lui si entusiasma e mi chiede un fax immediato col progetto scritto. Eseguo. Si tratta di una striscia di cinque minuti, in coda al TG, che costa due lire, ma sarà una bomba. In pratica: 

bianco e nero. Studio piccolo che mostra la porta a vetri di un bar, dalla quale faccio il mio ingresso, salutato dal barista  - che non si vede -. Rispondo al saluto e mi dirigo verso il bancone, dove è poggiato un quotidiano. Il barista chiede: “Il solito?” ed io rispondo, sfogliando: “ Eh, mi sa di sì. Guarda qua….” E lì partono quattro - cinque battute fulminanti, a commento dei fatti del giorno, mentre si scorge soltanto la mano del barista che mi porge il caffè.

Alle mie spalle, un tavolino con due sedie. Bevo, pago, ed esco. Fine.

 

 

Costo irrisorio. Programma cult garantito. Grandi ascolti e rientri pubblicitari enormi

( basta una marca di caffè ed una di macchine da caffè per bar… oltre mezzo miliardo a puntata, contro dieci milioni di spesa!). Guglielmi incarica immediatamente Bruno Voglino (sic!) di studiare la messa in opera del progetto… e tutto sfuma.

Dietro indicazione di Vincenzo Vita (attuale Sottosegretario alle Poste e mio estimatore ed amico, persona capace e retta), vado a trovare Stefano Balassone: vice di Guglielmi:

“Abbiamo i palinsesti ingessati. – sono testuali parole sue - Non posso fare niente per te. L’unico che potrebbe fare qualcosa  è Voglino. Lo conosci? Te lo presento?” Fine del discorso.

 

Il 23 aprile lascio un messaggio piuttosto duro a Fuscagni, chiedendogli anche di cercare ancora le mie sette videocassette.  Sento anche Grazioli, che mi aveva promesso di risolvere con Fuscagni, ma nient’altro che chiacchiere. Il 29 aprile chiamo verso le 15,30 Guglielmi per spiegargli almeno per telefono chi è Voglino e perché non mi fa lavorare. Un muro di omertà. Alla Rai, improvvisamente sono tutti onesti! “Ma che dice? Ma quando mai?!” Il 3 maggio ’93 viene a cena da me, a Sacrofano,  un vero potente, eminenza grigia, della Rai e non solo: il sedicente avvocato Gianfranco Pegoraro o Pecoraro. Costui, davanti alla mia ex compagna, a un paio di convitati,  ed al poco raccomandabile pseudo impresario Totò Jacobone (come ho già detto, scoprii soltanto dopo che essere infido fosse), enumera i contratti miliardari (reali) che conclude continuamente con la Rai e mi spiega come può farmi fare una montagna di soldi, sia alla Rai che alla Fininvest. Basta che io… mi ammorbidisca un po’ e lecchi un paio di culi. Ci svela che quasi tutti i pezzi grossi della Rai hanno un doppio stipendio (da Rai e Fininvest) – quelli che contano, naturalmente! – e che tutti indistintamente lui, grazie a non so che, li può manovrare come vuole. Io, un po’ lo disprezzo per la sua filosofia craxista e berlusconista (zero moralità e scrupoli), un po’ lo prendo sotto gamba, ma costui, prima di salutarci, mi lascia i suoi recapiti di Roma e Milano: una ventina di numeri di telefono!!!  Naturalmente, butto via il foglio coi numeri di Pegoraro, i suoi biglietti da visita, e il suo ricordo. Il 4 maggio, decido di prendere di petto Voglino. Il brav’uomo si nega per tutto il giorno. Per mesi, tampino lui e Fuscagni (anche chiamandolo a casa) e Guglielmi. Con Guglielmi parla anche l’attuale portavoce dei Verdi Manconi, ma il direttore di Raitre, in pratica, è nelle mani di Voglino e, anche apprezzandomi molto, non può fare nulla… Io racconto ogni cosa a Veltroni, tramite  Rita Capaldi, ma non accade niente. Tutti mi ammirano (seee…) e dicono che è uno sconcio il fatto che io non lavori, colla pochezza che c’è in Tv. Tutti promettono “un impegno serio e costruttivo”, ma oltre alle promesse non vedo nulla. Mi sento come quando mio padre cercò di darmi come mancia natalizia al postino e quello non accettò. Oh! Ce ne fosse uno che difende ciò che mandano in onda i suoi protetti! Tutti si dichiarano schifati dai brutti programmi, dall’assenza di idee, dalla pochezza di autori e conduttori. Idea: perché non mandare in onda un riquadro con quello che hanno fatto PRIMA e PER arrivare in TV tutte le zoccolette e zoccolone strapagate che ci contrabbandano per show girls, attrici, o vallette? Sarebbe un successone! Lo mandi in onda contemporaneamente alle loro squallide partecipazioni attuali: vuoi vedere che il pubblico preferirebbe vedere in primo piano le loro evoluzioni da scalatrici, piuttosto che il resto? Magari nel riquadro si potrebbero mettere le esibizioni attuali…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                       

 

 

 

 

 

La mia salute

Hanno cuore. Anche quando cercano di tagliarti la gola hanno un certo calore.

C.Bukowski (Hollywood, Hollywood!)

 

 

 

 

 

La mia salute comincia a vacillare e la mia forza di volontà anche. Brutti giorni e notti ancora peggiori. Incubi truculenti. Sangue. Incidenti. Risse dalle quali esco perdente o nelle quali vengo ucciso a calci. Miei figli dilaniati, morti. A che punto si può spezzare un uomo? Mi chiedo. E qual è il mio punto di rottura? (Non avevo nemmeno vino in quei mesi. Sarà stato per quello?) Ma mi rimbocco i coglioni e vado avanti. Mi incontro due o tre volte con Elvira Oxilia, segretaria particolare del Presidente del Senato Napolitano. Le porto un dossier completo sulle malefatte e le false promesse dei signori della Rai e chiedo un aiuto al Presidente Napolitano, per avere un po’ di giustizia. Lui mi fa rispondere che è contro il clientelismo (?!). Mi sembra di vivere tra i marziani: ma che c’entra il mio caso col clientelismo?!

Continuo a rompere le scatole a tutti e a ricevere belle promesse da Fuscagni (tramite Grazioli e Rojch), ma… Niente. Il 26 Maggio mi chiama il famigerato avvocato Pecoraro e, siccome non sono in casa, lascia un numero di Milano. “Cose grosse” lascia detto alla mia compagna. Lo evito. Verso la fine di giugno, disperato, tramite un faccendiere del PSI, un certo Gerace (fratello, credo, del noto ex assessore romano) parlo con Sodano, direttore di Raidue. La cosa muore subito lì: ho esordito con : “Non lavoro perché non sgancio mazzette…” lui sbadiglia a bocca piena, da gentleman qual è, e abbassa le palpebre: non gli interesso. Potrei essere il maestro di Woody Allen, ma ho aperto male il colloquio. Fossi stato bene, mi sarei reso conto subito di quanto humor nero involontario c’era in quell’esordio. Come andare a chiedere giustizia  da Bernardo Provenzano e dirgli, non lavoro perché sono contro la mafia…

 

Ed ecco rispuntare il famigerato Bruno Voglino (scaraventato dalla ammiraglia Raiuno a Raitre, perché il suo gioco era diventato troppo sporco? Una delle regole ferree della Rai è questa: quando uno ruba troppo, lo promuovono e lo rimuovono). Voglino si iscrive alla SIAE, sezione D.O.R., e lancia il gruppo Dandini, Chiambretti e Mirabella e Fazio. E Fazio decolla televisivamente. Non dimentichiamoci che Fazio lavorava in TV da oltre dieci anni e non se lo è mai filato nessuno. Evidentemente, Voglino, sempre in cerca di foraggio, avrà fatto anche a lui ( come alla Dandini, Mirabella, Chiambretti, eccetera, così si dice) la stessa domanda:

Ma se io ti lancio, cosa me ne viene in tasca?”

 

Fatto è che, Fazio viene finalmente lanciato in TV e, stranamente, ripeto: Voglino si iscrive alla Siae sezione DOR (dramma, operetta, rivista, radio e televisione), come Autore, proprio nel ’93… Ma come?! E’ assolutamente vietato dai regolamenti interni a qualunque dirigente, funzionario o dipendente della Rai, percepire diritti d’autore. Gli uomini dell’azienda vengono già più che lautamente retribuiti anche per ideare e scrivere…

Ma poi, sei in Rai da oltre vent’anni, proprio ora, in concomitanza dei lanci dei summenzionati, ti iscrivi alla Siae?! Bisognerebbe verificare il perché. Così come non sarebbe male un accertamento patrimoniale per i vari Voglino, Maffucci, De Andreis, Chicco Agnese, Umberto Forcella, Comanducci, Fuscagni, Scaffa, Salvi, Elena Balestri, Guardì, e tutti quei dirigenti e funzionari che hanno in mano budget e programmi. In Rai, lo sa anche il cavallo di Francesco Messina, non si muove foglia senza tangenti. Anzi, il cavallo prima era ritto e fiero: a forza di vedere queste cacate ormai è morente…

L’ultima delle impiegate (è successo alla mia amica regista di Napoli, Velia Magno), se non le fai un regalino nemmeno ti fa salire: e così, a Velia, una piccola funzionaria ha letteralmente sfilato di dosso un giubbino nuovo di renna, l’ha indossato, e se lo è regalato all’istante!!!

Chiunque volesse  potrebbe fare anche una verifica alla Siae, coi dirigenti corrotti, e verificare se e quante “lettere di cessione diritti” illegali vi sono custodite. In pratica: se io Autore non ho liquidi per pagare una mazzetta al dirigente, basta che invii alla Siae una lettera di cessione per una percentuale dei diritti che, grazie all’intervento del dirigente scroccone, mi entreranno e automaticamente la Siae verserà direttamente a lui i pari importi. Né io avrò mai facoltà di recesso, che soltanto il beneficiario ha.

 

Sempre più disperato, angosciato, depresso, e pieno di debiti; vivendo grazie a prestiti di amici o semplici conoscenti che hanno sempre avuto fiducia in me; vittima di uno sfratto per morosità dietro l’altro e slacci di utenze indispensabili per i medesimi motivi, scrivo accorate lettere e fax, e mando documenti attestanti la discriminazione di cui sono vittima da parte dei faccendieri della Rai. Non voglio emigrare in Albania o in Bangladesh per stare meglio!

So di rischiare il patetico, ma chi non ha mai passato queste forche caudine del maccartismo più sfrenato stenterà a capire cosa si prova ad essere stritolato da un muro di gomma. Muro eretto da mezze seghe. Da persone alle quali non permetteresti mai di frequentare tua figlia o la tua casa. Quaquaraqua inutili e dannosi. Incapaci, stolidi, e servili. Arroganti, supponenti, e vanesi. Mi immagino uno di questi potenti invitato a cena da qualcuno dei suoi protettori, politicanti o mafiosi. O entrambi. Alla frase <<Si metta comodo. Non si formalizzi, faccia pure quello che fa di solito>> questo si getta subito ginocchioni, tutto spettinato e infoiato, e cerca spudoratamente di leccare il culo al padrone di casa! Oh! Quanto vorrei che conosceste i mattoni che compongono questo muro! Un muro del pianto (nostro) che esiste soltanto in Italia! Ma sempre un muro è. Ben amalgamato, come tonnellate di bigattini da pesca, e colpisce, colpisce, colpisce. E non ti lasciano lividi questi colpi. Ti rendono afono, afasico, abulico. Ti piegano. Ti soffocano. Ti lasciano stremato.

 Informo TUTTI: dai politici  ai massimi dirigenti dell’Azienda.

Scrivo e telefono a Locatelli, la Sellerio, Demattè: l’unico, quest’ultimo,  che mi risponde cortesemente e mi invita a denunciare i lestofanti. Ma come faccio? C’è sempre il vile ricatto: mettiti contro l’Azienda e non lavorerai mai più.

Continuo a cercare sostegno dai politici, per ottenere giustizia: a  Luglio incontro Leoluca Orlando, Gaspare Nuccio della Rete; Speroni, Orsenigo, Marano e Scaglione della Lega Nord. Non so più dove sbattere la testa. Gigi Moncalvo, telegiornalista cacciato da Canale 5 e approdato a RETEMIA, si interessa del mio caso e mi invita a Lucca per una intervista di un’ora. Isa, una factotum della rete, ed un’altra impiegata mi informano che: andata in onda questa mia intervista, oltre a moltiplicare incredibilmente l’ascolto (circa quattro milioni di telespettatori per la mia intervista!), ha scatenato un’enorme gara di solidarietà: migliaia di telefonate da tutta Italia, lettere, proposte di lavoro (che non mi verranno mai recapitate… Chiedere il perché al titolare Raimondo Lagostena e a Moncalvo stesso: che pure mi avevano permesso di guadagnare qualche lira facendomi fare delle pillole satiriche, realizzate maluccio e senza mezzi ma andate in onda con parecchio successo. O chiedere a Berlusconi che, dopo iniziali minacce ai titolari di Retemia,  ha candidato e fatto eleggere  la madre di Lagostena per Forza Italia. Tina Lagostena Bassi: la stessa che poi – miracolo – è stata ingaggiata a Forum… Il nano di plastica ha, contestualmente, passato una montagna di pubblicità nazionale a Retemia. )

Per me, comunque, il successo di pubblico anche in una rete di vuccumprà è una spruzzata di fiducia: non mi hanno dimenticato!!! Peccato, fosse andato in porto il progetto discusso a una cena idilliaca con Lagostena: e cioè di ritagliarmi uno spazio per fare qualche programma mio come si deve, probabilmente sarei ripartito verso una serenità nuova e loro avrebbero incrementato di molto gli ascolti e il fatturato. Senza genuflettersi davanti alle minacce. Ma si sa, il coraggio non te lo può dare nessuno. Inoltre, Lagostena, da bravo massone, poteva dire no a uno della P2? E dire che avevo già pronta la risposta per qualche gazzettiere prezzolato: “Già, ho accettato la proposta di una rete che vende pentole, mobili, tappeti… sempre meglio che lavorare nelle reti dove si deve vendere il culo.”

 

 

Il 16 settembre, Scaffa, ancora capostruttura di Raiuno, avendo saputo di un mio appuntamento col Presidente Demattè, mi convoca in Rai per dirmi che hanno pochissimi soldi, per potersi permettere una figura di spicco quale io sono… Mi promette, comunque, che muoverà mari e monti. Mi esorta ad avere pazienza e fiducia. Non mosse nemmeno un laghetto piccolo piccolo. Il 25 novembre, il Direttore di Raiuno Delai mi manda dalla Dottoressa  Masini coi miei progetti nuovi: hanno ancora il problema del traino per il TG Uno. Nadio Delai crede nelle mie doti e nell’urgenza di riproporre in Rai qualche talento autentico ed originale. Delai incarica il suo assistente dott. Nava di inserirmi in scuderia. Ma qualcosa (qualcuno?) blocca di nuovo tutto. Eppure ho girato come una trottola, lasciando quasi a tutti progetti nuovi (in seguito scippati o copiati male) a Delai, Criscenti, Tocci, Masini,  Nava, Maffucci, Agnese, Comanducci, Minoli, Guglielmi…

Soltanto Balassone, Raitre, mi conforta: mettendomi in contatto con  Gabriella Carosio, per sfruttarmi almeno come Sceneggiatore e Attore nel settore Cinema e Fiction. Anche lì, però… risultati = zero. Esiste un veto sul mio nome? Pare di sì. Chi l’ha posto?! Ennesimo sfratto, ennesime umiliazioni, altre mine alla mia dignità e alla mia salute…  E vado a vivere a Valcanneto (Cerveteri: unico posto trovato, dove i  padroni di casa imbroglioni non mi chiedono il 740, ma si accontentano di otto milioni di cauzione e di un affitto doppio rispetto al valore della casa…). L’amore della mia compagna e dei conoscenti che mi sostengono mi danno nuovo vigore. Ormai non sono più un comico. Non sono più un vecchio figlio di puttana, talmente figlio di puttana da non aver bisogno di fare il figlio di puttana… Sono un animale svuotato e ferito. Ferito ma prostrato dall’inedia, la reattività si fa scarsa e debole la forza per reagire. La volontà e la lucidità sono intermittenti. Ma ho tre figli, cazzo! Ho una ragazza che mi adora e che sta gettando via i suoi giorni per tenermi vivo all’angolo. No, lei non getterà mai la spugna per me. Lei vuole vedermi vincere. Combatti, cazzo! OK. L’avversario ha colpito duro, ma non ha la castagna del KO. No che non ce l’ha. L’avrebbe già usata. No, caro il mio bamboccio, questo picchia al corpo, ai fianchi. Questo ti vuole fiaccare. Ma comincia a respirare anche lui a bocca aperta. Tieni duro e cerca di farlo stancare un altro po’. Sarà tuo. Non può farcela. Stringi i denti e prendi tempo. Ma dov’è l’arbitro? Perché non c’è un cazzo di arbitro? Sarebbe già finito l’incontro se ci fosse stato un arbitro. L’avversario è di un peso molto superiore ed ha commesso una scorrettezza via l’altra. Cazzi tuoi, amico. Niente arbitro. Devi farcela da solo. Il pubblico è dalla tua parte. Li senti come gridano il tuo nome? Avanti, cazzo di Budda! Alza quella testa e muovi il culo! No, non ce la faccio. Lei mi fulmina: “Non ti riconosco. Abbiamo passato momenti peggiori e non ti ho mai visto arretrare di un solo passo. Che ti succede? Vuoi dargliela vinta? Fai il loro gioco, bravo!”

 

Scrivo cose nuove e riprendo la mia rivendicazione con la Rai. Eravamo nel periodo in cui i politicanti cambiavano i vertici dell’azienda continuamente, con la velocità di uno schizzo. Eccomi a rifare il giro delle sette chiese, con i nuovi progetti sotto braccio. Spiego (sbagliando) ai freschi consiglieri d’amministrazione che ho fatto più ascolto io in sole tre puntate di Drive in ( programma che la Rai odia perché ha cercato di copiarlo o di contrastarlo decine di volte, con flop spaventosi e ritiro immediato della controprogrammazione!) o di Striscia la Notizia, di quanto non ne facciano in un anno le loro pseudostars (dati Auditel alla mano!).  “Datemi le previsioni del tempo e vi porterò a casa più ascolto dello show del sabato sera” imploravo. Ma a quelli importava poco. Per loro, essere alla guida della più importante industria dell’informazione della Nazione, qual era o avrebbe dovuto essere la Rai, o dirigere una banca piuttosto che l’INPS, non faceva nessuna differenza. Non capivano un cazzo comunque. I dirigenti Rai ed i loro padroni, in generale, non sanno nulla di televisione, né di spettacolo. Non sanno neppure che l’80% del pubblico televisivo si annida nei piccoli paesi, nei borghi sperduti, non certo ai Parioli! Oppure lo sanno, ma non sanno che in quelle realtà vive la gente più colta e preparata, in percentuale. Gente informata e che non ha portato il cervello all’ammasso.

Se sapessero almeno queste cose elementari, i dirigenti Rai non propinerebbero similspettacoli di merda, zingare, turisti per caso, dandini e giggiandrea, conduttori e comicaroli d’accatto.  Alzerebbero il tiro ed il livello delle offerte. Come si spiega altrimenti che, in un’Italia non ricca, in un Paese desertificato di cinema e teatri e di qualsivoglia iniziativa culturale periferica, la TV non fa trenta o quaranta milioni di ascolto per sera? O gli italiani sono tutti al cinema, in ristorante, a teatro, o a dormire alle nove di sera? No, naturalmente. Gli italiani si sono rotti i coglioni e lasciano la tv spenta o si divertono a cazzeggiare sulle piccole emittenti locali o leggono o conversano. Tanti anni fa, scrissi un assioma: “La televisione non esiste. La televisione è chi la fa mentre la fa.” Oggi ne sono più convinto che mai e i risultati mi danno ragione. Se a me piace Benigni, guardo Benigni anche se va in onda su Televongola. Me ne fotto della Rai o degli altri potenti network. Ma figurarsi se i padroncini della TV stanno a pensare alla qualità. La maggior parte almeno. A loro preme soltanto portare a casa un bel malloppo, piazzare qualche parente, e trovare qualche valletta o qualche ballerino da spupazzarsi facile. <<Venga, cara, si accomodi… Si metta a mio agio. Lei ha della stoffa… troppa…>> Cappitto mi hai?! Uno di questi signori mi disse che per fare il dirigente a quei livelli bisognava essere dotati di un sesto senso. Come no? Peccato che manchino degli altri cinque.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

            

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XI

Nel frattempo

 

 

 

 

 

 

La gente saliva sciamando dalla sotterranea.

Come insetti, senza volto, impazziti…

C. Buwowski  (Factotum)

 

 

 

Nel frattempo, l’amico Carlo Orichuja – ben piazzato ai vertici di Raiuno -  mi prende vari appuntamenti con la capostruttura Elena Balestri (Raiuno),  ma lei non mi riceve nemmeno. La mia nomea di personaggio onesto e irricattabile la frena?   Che mire ha?                                                                                                                            

Eccoci ad una ennesima truffa compiuta nei primi mesi del ‘94 da un paio di signori della Rai, Adolfo Lippi e Marzio Carlotti, regista e dirigente, che ho provveduto a denunciare all’Azienda e precisamente all’uomo preposto: il dott. Ferdinando Cruciani. Dopo una causa civile promossa dalla Rai (miracolo!), sono stati cacciati (ma ora, pare, reintegrati: ho visto recentemente Lippi che figurava come autore di un programma sul circo a Raitre…Ma che autori ci vogliono per descrivere un numero da circo? Un piccolo grande imbroglio per mollargli qualche decina di milioni di denaro pubblico.)

La causa l’hanno promossa solamente perché io mandai una raccomandata di denuncia a loro, dove esponevo chiaramente i fatti criminosi, e contestualmente mandai copia alla Procura della Repubblica. Altrimenti…

Questa mossa non ha certo agevolato i miei rapporti con quella parte infetta dell’Azienda.

 

Questi due gentiluomini,  Lippi e Carlotti, in combutta col faccendiere Stefano Macrino (nel giro dei falsi sottofondi musicali e beneficiato da numerosi contratti RAI, come esterno…), hanno estorto decine di milioni in nero ad un’agenzia di modelle, New Age – via Grazioli Lante, 5  di Roma -  spacciandosi per plenipotenziari di Raidue  in grado di acquistare e programmare uno show, che mi era stato commissionato da detta agenzia (vedi procedimento in corso: New Age – Salis, pendente presso il Tribunale Civile di Roma).

In pratica, succede questo: l’agenzia di modelle sta per fallire perché il lavoro è scarso e/o perché i titolari non sono all’altezza. Questi ultimi si fanno abbindolare da un sedicente regista della TV, un certo Carlo Casali, il quale propone alla New Age di produrre un programma televisivo che includa tutte le ragazze dell’agenzia. Porta un progetto: “Bande trasversali” e , dopo aver scroccato qualche cena e qualche anticipo, comincia a fare il casting (la scelta dei protagonisti). Una mia conoscente, presentatasi per il provino nei locali della New Age, sente dire dal regista-autore che cerca disperatamente il comico sardo del Drive in. Lei, sapendo dove trovarmi e conoscendo le mie condizioni, mi mette in contatto con questo Casali. Vado a trovarlo e lui, dopo tante feste, mi mette in mano il copione. Mi accorgo subito che ‘sto tipo, con l’aspetto innocuo e malaticcio del borseggiatore d’autobus, non ha la più pallida idea di cosa sia uno show televisivo e tantomeno di cosa sia un copione. Quattro paginette confuse e piene di tette e culi; un brogliaccio di luoghi comuni e doppi sensi, dove io avrei dovuto fare pesanti apprezzamenti sulle grazie delle signorine e stupidate del genere. Insomma, glielo dico chiaramente e faccio per andarmene. Il Casali mi trattiene e mi offre di scrivere io i testi, lui si limiterà alla regìa.

“ C’è tanto da scopare – mi dice – e questi ( i produttori ) sono pieni di soldi.”

Io ho fame, anche di lavoro, ma ho una compagna deliziosa che ha metà della miei anni e sta con me da cinque primavere. Inoltre, sono un professionista e non faccio certo questo mestiere per rimediare qualche scopata. Chiedo di parlare coi titolari: sempre di un lavoro può trattarsi. Anche qui, mi rendo conto, a pelle, che ho a che fare con degli sprovveduti o con persone in malafede. Decido di lasciar perdere. La sera dopo, scortato dalla mia conoscente, il Casali mi viene a trovare. Si sbrana un’intera forma di pecorino e metà della cena per quattro da solo, parte al secondo bicchiere di vino, finalmente solleva la testa dal piatto e passa agli affari: è latore di un mandato a trattare da parte dei titolari dell’agenzia. Torno a Roma, il giorno dopo, e porto ai tre signori della New Age: Sandra De Paolis, Marco Petrignani e Pasquale Parisi (l’unico serio dei tre, come scoprirò più tardi), una bella lettera-contratto da firmare. Non posso né voglio perdere tempo. In pratica, chiedo venti  milioni, di cui dieci anticipati, per la realizzazione di un copione forte. Loro temporeggiano e rimandano al giorno successivo la firma dell’atto: non hanno carnet di assegni a disposizione e proprio il giorno dopo devono fare i provini filmati in una discoteca presso la Piramide: “Ci vediamo lì e definiamo.” Andiamo a vedere… Entro in discoteca e c’è la solita bolgia di queste occasioni raccogliticce: zero professionalità. Il regista, poi, non ne parliamo. Mi accorgo subito che è un impostore (a parte il fatto che non ne avevo mai sentito parlare e nell’ambiente ci conosciamo tutti ), ma questo tipo non ha mai visto un set né una telecamera da vicino prima d’ora! Glielo dico e vado a dirlo ai produttori:

- Io lascio, buon divertimento. –

 

La De Paolis mi trascina in un cantuccio e si fa un pianterello. Ne ha sempre uno in tasca. “ Non ci abbandonare. – Mi prega – Siamo fuori di un sacco di soldi e ormai dobbiamo andare fino in fondo. Solo tu ci puoi salvare.” Le spiego che le cose non si fanno così e che, se vogliono che mi occupi io della faccenda, esigo la supervisione assoluta dell’opera e la scelta di collaboratori di mia fiducia. Lei accetta, felice, e ci si dà appuntamento per il giorno successivo ancora, presso i loro uffici. Io riscrivo la lettera contratto con le nuove clausole e la sera successiva firmiamo. L’anticipo, però, non si vede: “Aspettiamo un rientro. Quelli della banca hanno fatto un casino, sarà roba di qualche giorno.” E io ci casco. E’ Parisi che garantisce e io gli credo. Mi metto al lavoro. Convoco a Roma il mio alter ego, Filigheddu, con tanto di biglietto aereo prepagato e ospitalità. Incarico il mio amico Giovanni Messina (regista Rai) di farmi la co-regia, stando alle macchine e sua moglie, Gely Di Pisa (scenografa Rai), delle scenografie. Insomma, riunisco il mio staff di prima scelta. Non avendo mezzi, il lavoro di redazione, il casting e le riunioni si fanno a casa mia. E’ un viavai di starlet, aspiranti divi/e, comici o sedicenti tali: da Patrizia Pellegrino a Gianni Dei; da Laura Troschel ad Adriana Volpe, quasi l’intero cast dell’attuale Seven Show di Europa 7.  Qualche volta devo fare un salto io a Roma, pare che sia pronto l’anticipo… I miei viaggi si concludono sempre in trattoria, dove pago io o paga Gianni Dei. Lui è simpatico, anche se vuol fare il cantante e non potrebbe; però è pieno di soldi e, credo, abbia pagato profumatamente la De Paolis per convincermi a fargli fare la sigla del programma (nientemeno)! Invento per lui un grazioso personaggio per un segmento dello show: “ Il care-oche”, dove dovrebbe far cantare le esponenti dell’alta società romana – quasi tutte amiche sue –  dopo averci rapidamente fatto visitare le auguste dimore. Il programma che sto scrivendo si chiama VIRUS, titolo che poi cambierò in LUNA RIDENS. E’ un fortissimo impianto di varietà-sit-com, infarcito di collegamenti con le discoteche di tutta Italia e con le case dei VIP. Inutile descriverlo e inutile parlarne troppo a lungo. Ricevo, finalmente, alla consegna del copione finito, circa due milioni e mezzo (a parziale rimborso delle cifre da me anticipate e documentate) e un assegno da dieci milioni (poi rivelatosi scoperto).

Qui cominciano i guai.

 

Io avevo selezionato dei personaggi bravi e inediti e scritto un copione di ferro. Avevo fatto i sopralluoghi col co-regista nel locale dove avremo poi dovuto registrare. Insomma, ero pronto. La De Paolis era in balia del socio Petrignani (nel frattempo, Parisi aveva abbandonato l’impresa e la società ). Questo Petrignani era un grande millantatore, traffichino, assolutamente inaffidabile. Scoprii dopo che, come secondo lavoro, collaborava con uno strozzino. Ora è in galera per omicidio. Addirittura! I due, insieme, alla ricerca di soldi facili, avevano cercato di scompaginare tutto il mio lavoro: imponendomi, grazie all’ingresso nell’affare di un certo Stefano Macrino (altro losco figuro descritto sopra), tante mezze tacche disposte a pagare fior di milioni pur di fare televisione. Stesso discorso che gli era riuscito benissimo e spesso alla Rai. Cercarono di impormi addirittura una cartomante! Non basta. Ebbi subito un altro diktat: fuori la scenografa, fuori il co-regista. Della regia si sarebbe occupato un prestigioso e ammanigliatissimo (parole della De Paolis ) regista della Rai: Adolfo Lippi. Questo Lippi, che conoscevo già come mediocre spingitore di bottoni, veniva in coppia con un dirigente o funzionario della Rai: un certo Marzio Carlotti., viscido ammasso di lardo che non parlava mai. Il gatto e la volpe, sponsorizzati da Macrino, si spacciavano per plenipotenziari di un fantomatico spazio sicuro su Raidue per il nostro programma.

 Naturalmente accettai, per quieto vivere, l’imposizione del regista (avevo o no un contratto che mi dava la supervisione assoluta? ) e diedi a malincuore il benservito ai miei amici-collaboratori. Confidando soprattutto sul fatto che, a programma in onda, mi sarei sbarazzato facilmente dei tizi indesiderati ed avrei rimesso le cose al loro posto. Respinsi decisamente le varie marchette che cercavano di impormi al posto dei personaggi da me selezionati e scelti. Prima il Petrignani, poi la De Paolis, infine il Macrino stesso, mi ventilarono centinaia di milioni al nero e cash: perché dovevo continuare a fare lo schizzinoso?

 

Già alla lettura del piano di produzione, la mia assistente mi fece notare l’incompetenza del regista e del suo assistente: c’erano tutte le convocazioni sbagliate!

- Questi non sanno nemmeno leggere un copione. –

dissi alla De Paolis, nel suo ufficio, mostrandole gli errori.

 - Levameli dalle palle o me ne vado io. –

Lei cercò di ammansirmi, portandomi in bagno (gli altri locali brulicavano di gente) e mostrandomi venti milioni in contanti che le aveva appena dato, in nero, l’emissaria della “Elvira Gramano”, certa Paola Schiavoni.  La Schiavoni provò anche ad ammansirmi personalmente  offrendomi grosse cifre in nero e  ricevendo la solita risposta:

E’ un altro programma. Questo si chiama LUNA RIDENS ed è una cosa diversa. Niente sfilate. Punto.”

-         Metà di questi sono tuoi. – disse, la De Paolis – Quando andiamo a pranzo, te li do. Devi solo inserire nel programma una piccola sfilata di abiti da sposa. –

-         Nemmeno morto! Questo è un altro show. Se vuoi un programma di sfilate, ve lo fate voi.-

 

 

Naturalmente, pochi minuti dopo il meeting in bagno, si presentarono il gatto e la volpe e la De Paolis tornò da me piangendo. Fece uscire tutti dall’ufficio dove facevo base e, tra i singhiozzi, mi confidò che i soldi li avevano voluti Lippi e Carlotti.

-         Se non glieli davo, facevano saltare tutto. –

O.K. Decisi di indagare presso la Rai. Non c’era nessuno spazio previsto in palinsesto per LUNA RIDENS. L’unico che avallava Lippi e Carlotti era un certo dirigente o funzionario De Liguoro, se ricordo bene il nome; uno che saccheggiava, gratis, il negozio  Versace  rappresentato in centro da Gianni Dei.  Per il resto, i due compari contavano un ciufolo. Lo dissi alla De Paolis. Lei mi garantì che presto avrebbe trovato altri soldi, per il mio saldo (ancora non sapevo che l’assegno dell’anticipo fosse cabriolet), e che lei non avrebbe permesso che mi distruggessero il copione. Lippi, però, era indispensabile: lei aveva fonti sicure

Le fonti sicure rispondevano al nome del potentissimo Michele Guardì: avevo scelto come protagonista femminile (senza sapere ancora del loro legame) la sua amante-valletta  Adriana Volpe…  La Volpe, interpellata da me, confermò e mi tranquillizzò. Inoltre, si era trasferita a casa mia per le prove e vedevamo bene, la mia compagna e io, chi la veniva a prendere per un giro: la mattina Max Biaggi, fidanzato ufficiale, con una mini o un a Ferrari rossa; e la sera Guardì, con una comoda Mercedes scura. Tutti i giorni! Arrivò il giorno della registrazione. Lippi aveva occupato l’albergo di fronte alla discoteca-set, il Cyborg  di Attigliano, insieme con tutte le belle figuranti (che si chiusero tutte a chiave nelle loro stanze e dopo un po’ staccarono pure i telefoni: stufe delle proposte di Lippi e del suo assistente Ribaudo), mentre per me e la mia assistente non c’era nessuna prenotazione. Gli attori erano stati sistemati in una specie di ostello. Le prenotazioni e l’organizzazione generale erano, naturalmente, dell’assistente di Lippi: Ermanno Ribaudo, la negazione assoluta della figura professionale che rappresentava. Arrivai in studio e notai tre telecamere-giocattolo ammucchiate in due metri quadri. Chiesi a Lippi cosa aspettasse a disporle.

“ Vanno bene così.” fu la sua risposta.

 

Mancavano i costumi (dovetti provvedere io a comprare abiti, scarpe, e delle altre cose, coi miei soldi; non c’erano i figuranti richiesti e le luci erano scarse. Inoltre, le convocazioni erano sbagliate. Mi spiego: quando Lippi chiamò ordine sul set, mi chiese se volessimo cominciare con la scena – poniamo – numero otto. “ Va bene.” dissi, ma pensai che l’avremmo potuta registrare col cazzo! Infatti, mancava l’attore che avrebbe dovuto duettare con me: era stato convocato per il giorno successivo… E così fu per il resto della giornata. Questo lo scrivo per i non addetti. Insomma, non si registrò un bel niente. Io dovetti andare a dormire a Viterbo, gentilmente accompagnato all’hotel Milano due e presentato dal titolare della discoteca, alle tre del mattino! Prima di partire, ribadii categoricamente alla De Paolis: o io o loro. Lei giurò che avrebbe cacciato Lippi & c. e ci lasciammo. La mattina successiva, arrivai all’albergo-base di Attigliano e… Sandra De Paolis era a Roma per prelevare contanti, così mi disse il Petrignani.

 

Petrignani e Lippi prendevano beatamente il tiepido sole di marzo, stravaccati nel patio dell’albergo. Petrignani, vista la mia grinta,  mi prese sottobraccio e mi accompagnò alla sua auto: “Qui dentro – disse, pressappoco, indicandomi il baule – ci sono cinquanta milioni in contanti. In nero. Se la pianti di rompere i coglioni, te li prendi e ce ne saranno altrettanti per ogni puntata. Basta che ascolti Macrino, Lippi e me. Altrimenti, noi facciamo il programma senza di te e senza il tuo copione: la figa c’è e Lippi ha già delle idee per un programma bomba.”

Lo scostai malamente e andai alla discoteca, per annunciare ai colleghi convenuti che il mio lavoro finiva lì e che loro sarebbero stati liberi di scegliere: continuare senza di me e il mio copione o mollare tutto. Mi seguirono tutti, tranne alcune figuranti della New Age.

La maggior parte di queste ragazze, lungi dal fare le modelle, erano esperte in altri tipi di figure e figurazioni ginniche: offertemi in tandem o trii dallo stesso Petrignani, più di una volta – gratis – ma mai accettate. Alcuni noti personaggi del cinema di serie B, contattati telefonicamente dallo stesso magnacer davanti a me, con tanto di trattativa circa il conquibus, erano invece ben felici del giochetto.

 

Rimasero anche  due o tre mentecatti di pseudocomici, disposti a tutto pur di fare televisione. La loro carriera, a tutt’oggi, è ancora a quel punto.

Quando stavo per salire sulla mia auto, accompagnato dalla mia assistente, mio figlio, e una delle attrici, ecco spuntare una piangente Sandra De Paolis. Mi convince ad accompagnarla in uno dei camerini della discoteca ed io la seguo, immediatamente raggiunto dalla mia assistente Monica Cirronis. Mi serviva almeno un testimone attendibile. La De Paolis cerca di spiegarci che è vittima di un gioco più grande di lei; che, pur essendo ormai l’unica titolare dell’Agenzia, è nelle mani di Petrignani e Lippi e Carlotti e Macrino e… Che, sì, certo, ho ragione io, ma lei non può contrastare eccetera. La chiudo lì. Riesco a farmi rimborsare con un assegno bagnato dalle lacrime il milione e mezzo, circa, speso e fatturato il giorno precedente e, ignorando i suoi “cercate di capirmi”, prendo la via di casa. Il giorno dopo, denuncio al Dott. Cruciani dell’ufficio legale della Rai i due “pezzi grossi” Lippi e Carlotti. Quantomeno per truffa: in orario di lavoro, lautamente pagato dall’Azienda, loro erano perpetuamente alla New Age o, nella fattispecie, ad Attigliano a fare i cavolacci loro. Come ho detto, c’è stato un processo. Sono andato ripetutamente a testimoniare in viale G. Cesare e li hanno cacciati dalla Rai. Almeno in un primo momento.

 

Nei giorni della mia denuncia contro i suddetti, ebbi modo di parlare con Giovanni Minoli anche dei miei problemi con la Rai, costui mi indirizzò dal suo assistente: Chicco Agnese,  il quale mi chiese curriculum e progetti. La rete, mi disse, aveva bisogno di un rilancio e quindi avrebbero sicuramente trovato modo di impiegarmi per il meglio: loro non erano come gli altri; potevo stare tranquillo. “Da noi si predilige la meritocrazia!” Ho visto! Cioè: non ho visto niente. Intanto, continuavo a sentirmi quotidianamente con la sig.ra Briotti segretaria particolare del Presidente Demattè. Persone civilissime, ma lei, in via del tutto riservata, mi confidò che avevano le mani legate contro questi boiardi potentissimi, palesemente ladri e incapaci. Dopo tante telefonate al numero di Minoli, l’assistente dott. Agnese mi dirottò verso un certo Alfonso De Liguoro, tipo viscido e sospetto (vedi sopra). Alcuni conoscenti, incontrati in Rai, me lo descrissero come uno dei mister 10%. Sempre meno dei Sodano & c. che andavano dal 15% in su. Queste erano le voci.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                               XII

 

Continuo la mia via crucis

 

 

 

 

 

 

 

Gli analisti non valgono niente. Sono troppo soddisfatti di sé.

C.Bukowski ( Storie di una vita sepolta.)

 

 

 

Continuo la mia via crucis presso Rai e politicanti, fino a giugno: quando l’Italia sta peggio combinata di me. Avevano vinto le elezioni Gelli, Burlesquoni e Previti: si ruba per comandare, poi si comanda per rubare…Decido, nonostante le mie idee e i miei princìpi, di andare a chiedere aiuto a Storace di AN, amico di un mio conoscente, e addirittura a Taradash!

 

Incontro Storace il 22 giugno alle 11,30, nel suo ufficio di via della Scrofa. Ero disfatto, anche perché, prostrato com’ero, continuavo a perdere possibilità di lavoro (il giorno precedente, ero stato bocciato ad un provino per il film su Pasolini, dal regista M. Tullio Giordana: non sapevo nemmeno dove mi trovavo e, anche se lui puntava parecchio su di me almeno quanto io tenevo a fare il film con lui, non gli davo nessuna garanzia di stabilità psicologica … il giorno prima ancora, mi era arrivato l’ennesimo avviso di sfratto ed un mio assegno era stato protestato! Come poteva un regista fidarsi di un professionista sbarellato come ero io?

 

Storace mi venne a prendere sorridente e amicone alla saletta d’attesa. Disse che era un mio vecchio fan. Vedendolo mi ricordava molto l’assessore Giorgio Carta: stessa fisionomia da cinghiale, corpulento. Mascelle grosse. Solo che questo aveva vent’anni di meno e gli occhi chiari. Dietro sua precisa domanda, chiarii a Storace che non stavo dalla sua parte politica, ma che avevo bisogno di giustizia. Lui, molto mansueto, prese atto della cosa e precisò che il fatto che io fossi di idee progressiste non era penalizzante e che la mia situazione gridava vendetta, indipendentemente da quali fossero state le mie idee politiche. Mi avrebbe aiutato. Ci contai.

 

Lo rividi il 27 alle 19,30 e lui mi disse: “Facci mandare a casa questo CdA della Rai e, appena verranno eletti i nuovi amministratori, ti ci porto io per mano a farti fare un contratto serio.”    Ripresi un po’ di speranze. Continuai, per scrupolo, a tempestare di fax e telefonate tutti i raisti: io, solitamente così schivo e riservato, mi ritrovai a fare la piattola. A tutti i nuovi dirigenti inviai un fascicolo con le mie vicissitudini e le mie proposte, dalla Moratti in giù. Storace mi diede il numero del suo cellulare, forse in segno di grande confidenza e per tranquillizzarmi: “Risolviamo”,  ripeteva.

Il 19 luglio, Storace incontra Mauro Miccio, potentissimo neo-Consigliere d’ Amministrazione della Rai, ma mi informa che il “caso Salis” non viene nemmeno sfiorato. Ovvio: c’è da dare precedenza a tutti i nani e le ballerine provenienti dal circo “Craxi - Pillitteri - Martelli” e, peggio, da riciclare gli scarti delle pseudostars sfigate della Fininvest. C’era da sistemare i figli d’arte. Ma di quale arte?! Ah! Le tessere di partito… Dietro suggerimento di Storace, prendo ad assediare Miccio (che non mi darà mai un appuntamento! Chiamo quasi quotidianamente e stringo una quasi amicizia con la sua segretaria particolare, Cristina Scalese: sconcertata dal mio caso e dalle porcherie di cui viene a conoscenza nel corso della sua permanenza al settimo piano. Lei mi dice che il dottore ( Miccio) mi apprezza molto, ma che non può aiutarmi. Noto, nelle mie visite a viale Mazzini, che il dottore ha però tempo in quantità per i soliti: Sardella, Mirabella, Guardì, Tirone... e altri geni di quel calibro. Ha proprio ragione Paolo Poli: oggi basta che uno riesca a disegnare la O col bicchiere che subito, in questo nulla,  viene acclamato genio! Questo nulla voluto e creato da loro, dai potenti, aggiungo io.

Io non demordo e vado avanti fino al 26 ottobre, quando becco Brando Giordani al telefono Invio il solito fascicolo e, via telefono, informo la sua segretaria di quante botte sul muso ho preso per aver opposto dinieghi a tutte le richieste di mazzette. Le faccio presente che questo è l’andazzo, che le grosse produzioni sono gestite dalla mafia (quella vera), che in Rai hanno il magazzino vuoto e i vari Sabani, V.Merola & c. continuano a smazzettare coi soliti noti, pur facendo programmazzi di scarsa qualità e ascolti vergognosi (es: Castrocaro). Le mi risponde, testuale e serafica  (mi sono appuntato la frase saliente) :  “Mafia e mazzette qui?! Ma che paroloni! Ora come ora, abbiamo il magazzino che scoppia (?!); per un suo incontro col dott. Giordani, vedremo più in là.”

 

E io continuo: sig.ra Laureti per l’ing. Alfio Marchini, consigliere d’amministrazione; sig. Briotti per la Moratti, presidente; oltre ai soliti Miccio, Storace, Scaglione, Marano, La Porta, Iseppi, Minoli, Criscenti, Billia, Locatelli… E così fino al 6 dicembre alle ore 11, quando viene a casa mia un pezzo grosso dell’ufficio legale della Rai: il dottor Cruciani (per l’affaire Lippi-Carlotti-Macrino), e gli racconto tutta la mia vicenda RAI con calma e precisione.

Lui mi ascolta, quasi curiale, poi mi fa una giusta osservazione:  “Ma se le cose stanno così, e stanno così, perché lei si dà tanto da fare per tornare a lavorare in un’azienda piena di ladri, di improvvisati, di miracolati e incompetenti?”

Ma perché, rispondo io, questo è il mio mestiere; perché lo so fare meglio di tutti quelli di viale Mazzini messi insieme; perché ho passato la mia vita a studiare e fare gavetta, anziché andare a leccare culi a Montecitorio. Perché, sia alla radio che in TV, ho avuto per anni più ascolto e gradimento io in una puntata, che questi miliardari abusivi in una intera stagione. Perché sono uno dei tre Autori italiani che sanno scrivere e inventare programmi originali. Perché la Costituzione garantisce il mio diritto al lavoro. Perché la Rai è un’Azienda pubblica, non una enclave privata della mafia di Baudo-Guardì-Sardella e compagnia cantante.

 

Denunci alla magistratura. – mi fa lui, serafico – Denunci. Perderà la causa perché – e questo glielo dico io, che sono uno di quelli che cerca di fare pulizia – è tutto vero, ma questi signori hanno coperture molto forti e non lasciano prove. Lei perderebbe la causa e non metterebbe mai più piede in Rai. E’ questo che vuole? Dia retta a me: faccia il bravo, si faccia furbo e cominci a leccare culi.”

 

In quelle ore, muore il grande Volontè e Antonio Di Pietro si dimette dalla magistratura. Le cose si mettono male per i giusti. Chiedo scusa al lettore per questi elenchi di nomi freddi da agendina squillo, ma servono a rendere l’idea dell’abnegazione e della pazienza certosina che mi animava. Una delle accuse che mi è sempre stata rivolta dai “normali nani di giro” è appunto quella di stare troppo per conto mio, di non frequentare, di non assillare. “Sembra che ti dai arie…” Eccoli accontentati. Mi sentivo un verme, ma tampinavo eccome. Sempre tenendo presente che sono un uomo schivo e assolutamente fuori dai giochi e dai salotti, quindi mi violentavo quotidianamente. Amo la vita semplice e le compagnie genuine. Mai frequentato l’ambiente dello spettacolo italiano, così squallido e incrostato, tranne pochissime eccezioni, ignorante, volgare e popolato male. Dovreste proprio sentire una conversazione tipo tra qualche star televisiva italiana: da far accapponare la pelle. Mentecatti, miracolati dai piedi d’argilla e due neuroni nel cervello. Neuroni che quando s’incontrano devono pure fare manovra: lo spazio è così angusto! Non ho mai gettato cinque minuti della mia vita con gente simile. Come non ho mai sopportato le conversazioni tra maschietti: me la son fatta, ne ho fatte quattro di seguito, quella fa giochetti che nemmeno le albanesi da strada… Aria! Vuoto assoluto e falsità. Un altro consiglio che mi hanno ripetuto fino alla nausea molti colleghi è questo: “Non devi parlare così dei colleghi e dei dirigenti. Sei troppo sincero e chi non ti conosce potrebbe pensare che sei invidioso. Lo so anch’io, lo sappiamo tutti, che questa gente è arrivata e mantenuta lì con gli appoggi. Queste merde, comunque, ce l’hanno fatta. Dammi retta, dì che sono tutti bravi, tutti simpatici, come facciamo noi, così non ti crei dei nemici.” Capito? Senti chi parla, penso. Lo so. Lo so che la verità non basta. Lo so che l’ipocrisia è il modo giusto in questo mondo. Ma so anche che farcela in quei modi e farcela in un ambiente così mefitico e squallido è una vergogna! Fosse un merito lo capirei e tiferei per loro. Ma si sa, in questa Italia, la sincerità è pericolosa e la verità è una brutta bestia. Basti vedere Ustica, caso Moro, inizi di Berlusconi, Gladio e i fatti della P2 o della stazione di Bologna… Comunque, io tampino e rompo le palle, prendo l’incombenza come extrema ratio. Batti e ribatti, mi dico, qualcosa succederà. Sono serio e capace, cazzo: la pratica vale più della grammatica. Sono testardo come una mandria di muli. Non posso non farcela.

 

Il 7 dicembre 1994, mi chiama una certa dottoressa  La Rosa, per conto del direttore di Raidue- non ridete - Gabriele La Porta. Questo fighetta insipido come acqua tiepida era stato imposto dalla Lega al ponte di comando della seconda rete… Ora se la fa con Bertinotti. Grand’uomo! E belli anche coloro che lo sponsorizzano.

Questa La Rosa lascia due messaggi e infine mi trova: dice che il direttore mi vuole incontrare ed è entusiasta dei miei progetti (ci hanno parlato, come promessomi, Marano e Scaglione della Lega?). Finalmente, il 23 dicembre, venerdì alle ore 11, il sommo gnomo Gabriele La Porta mi riceve.

Mi dà subito l’impressione di uno che in vita sua ha letto solo T-shirt. E non mi sbaglio. Vanesio e preoccupato soltanto di fare ginnastica e controllare che sulla testolina vuota si annidi più fissatore che capelli. Ecco chi ha fatto il buco nell’ozono! Tra lui e la Fumagalli Carulli Citrulli…

Io, carico di curriculum, progetti nuovi (come da sua richiesta), e gonfio di rinato entusiasmo, sto con lui per oltre un’ora e me ne vado rassicurato:

Amico, mi hai portato delle bombe! Facciamo subito questo, poi impostiamo quest’altro… Io sono, qui dentro, l’unico sveglio e l’unico che mantiene la parola; puoi chiedere a tutti… “

Mi aveva lasciato, tra una pettinata e l’altra, tra una smorfietta e un sorrisetto falso, con:

Vediamoci verso la metà do Gennaio. Sai, le feste, poi devo partire…Tornerò a metà mese. Tu non hai bisogno di chiedere un appuntamento. Chiami soltanto per sapere se ci sono e vieni su. Ti abbraccio. Faremo di questa Rete una grande Rete!” 

Non lo vedo né lo sento più. Svanito.

 

Cerco di contattare Rosy Bindi. Tramite la sua segretaria  Assia Fabi, mi promette che, appena avrà un po’ di tempo, l’onorevolessa rifletterà sul mio caso… Classica risposta democristiana.

 

 

Ogni tanto, mi acchiappa uno sprazzo di lucidità e riaffiora il vecchio Lucio. Quello che stanno cercando di seppellire. E allora mi scopro a ridere da solo. Ma come, mi chiedo, queste mezze figure che non manderei mai nemmeno a comprarmi le sigarette governano… pardòn, comandano in Italia?! Questi minus habens mi stanno facendo tanto male? A me?! Che me ne mangio dieci per volta, crudi, la mattina! Non è possibile… E invece, siccome tra cacchine e bigattini  si coalizzano, era possibilissimo.

A questo punto, visto che qui mangiano tutti alla stessa greppia, decido di interessare la stampa internazionale.

 

Sento: Rose Marie Borngasser del “Die Welt”, Margit Bornmann, Roswita Von Bruck e Teja Fiedler di “Stern”, Valeska von Roques  di  “ Der Spiegel”, Karina Bouchet corrispondente di vari giornali e TV della G.B., Paul John House del “ Daily Mirror” più qualche Tv importante, Tana de Zulueta , Peru Egurbide di “ El Pais”, Vanja Luksic dell’” Express” di Parigi e “Le Soir” in Belgio, Marie Claude Decamps de “ Le Monde”, Emore Galeassi di “ France 2”, James Clancy della “CNN”, Elda Guglielmetti della “NBC”, Udo Gumpel corrispondente per i più importanti media tedeschi…

A tutti interessa una storia Kafkiana come la mia: i loro sono Paesi dove una situazione del genere sarebbe fantascientifica! Qualcuno dei giornalisti di più vecchia permanenza in Italia mi conosce artisticamente e mi apprezza. Quando sto per organizzare una conferenza stampa presso la sede della Associazione Stampa Estera, mi arriva una telefonata di Assia Fabi, segretaria della Bindi, che mi induce a temporeggiare: forse riescono a parlare col potentissimo

raista  Aldo Materia. Il 19 gennaio 1995 mi chiama la segretaria di uno dei padroni della Rai. Da qualche tempo ci sentiamo spesso e mi ha preso in simpatia: le ricordo suo padre, dice, uomo integerrimo e morto infelice. Mi chiama la sera tardi per dirmi di aver saputo che La Porta è seriamente interessato e che Miccio e il suo capo spingeranno per me. L’8 febbraio, non vedendo niente, denuncio alla signora (che segna degli appunti, dietro mia preghiera) nomi e misfatti dei lestofanti Rai; da Voglino in poi, compresi alcuni signori di Forza Italia (di cui non conoscevo i nomi) che, durante una breve permanenza con me nella sala d’attesa del settimo piano, parlavano apertamente e spudoratamente (forse credendomi della ghenga) di un appalto fasullo, per decine di miliardi, che la Moratti (o Miccio stesso) avrebbero dovuto firmare – conditio sine qua non – nella stessa giornata.

In serata, la mia amica mi conferma che il suo capo, potentissimo Consigliere d’Amministrazione della Rai, ha letto il foglio e non ha fatto commenti. Ma con me sparisce; non si fa più trovare al telefono, né ascolta lei se gli parla di me. Domanda: è connivente?

 

Intanto, alla mangiatoia Rai continuano a servirsi generosamente i piduisti, come Gervaso e altri duecento, e i soliti nani, ballerine, miracolati, amici di Fini come l’insulso Frizzi e servitori craxi-berlusconisti. Tutta gente che incassa svariati miliardi annui! Forse non sapete che la valletta più stupida, che con due servizietti blowjob qui e due là ottiene qualche foto sui settimanali rosa e tre ospitate televisive, poi esce a fare serate, metti alla sagra della salsiccia o a qualche compleanno al Gilda, e si intasca dai 15 ai 30 milioni a botta! Esentasse. E i professionisti talentuosi e amati dal pubblico pagante a casa. Niente TV, niente tournée. Ai primi di marzo, decido di riattivarmi con la stampa estera. Ma, prima, mi rifaccio vivo con Segni, Napolitano, Fogu (senatore sardo del PSI), Scaglione, Orlando, Storace, Vita, Manconi, Bindi, Scalfaro, Bossi e Marano. A sentire le scuse più fanciullesche e gli accenti macchiettistici di molti di questi personaggi o delle loro segretarie, ci sarebbe veramente da ridere, se non ci fosse da piangere con l’ombrello aperto! Proprio Antonio Marano, pupillo della Pivetti e piccolo boss in Rai (ricordiamolo: ha fatto nominare direttore di Raidue l’evanescente La Porta!), mi indirizza verso un’altra sua creatura: Roberto Nepote capostruttura di Raitre. Costui, un piemontese che della Rai sapeva soltanto di dover pagare il canone, mi accoglie come se fossi Marlon Brando. Comunque mi prega di fargli avere curriculum e progetti:

“ Per gli altri stronzi di qui, sai. Vediamo di risolvere la cosa. Tranquillo.”

Sempre in quei giorni, forse Chicco Agnese, mi fa parlare col vicedirettore di Raidue, Cavallina:

Non me ne frega un cazzo di quello che dice Agnese. – mi fa, signorilmente, costui – Io non ho bisogno di comici e tantomeno di autori.” Beato.

Il 10 marzo, chiamo addirittura la Cancellieri e Giovanni Blasi: responsabili di programmi-denuncia come: “Dove vanno i Pirenei” e “Tempo reale” di Santoro… Magari, penso, parlando pubblicamente del mio caso in quelle uniche oasi di libertà nella Rai berlusconizzata, hai visto mai? Però costoro (i conduttori-responsabili), in diretta televisiva e sui giornali si fanno belli con tanti discorsi sulla giustizia e sulla solidarietà, ma in realtà, da buoni miracolati del PCI-PDS, umanamente ed eticamente se ne fregano di me e di tutti i casi di discriminazione reale: manco fossi un povero extracomunitario che raccoglie pomodori per qualche caporale! Quello si può fare: fa fico! Figurarsi se si mettono nei guai per un personaggio scomodo e di grande personalità come il povero Salis. Ergo, tante belle parole, tanti altri soldi spesi dal sottoscritto per altre fotocopie e altri fax, però… Buio totale.

 

Intanto, oltre ai nani e ballerine soliti, i transfughi falliti della Fininvest, persino Adriana Volpe, la similvalletta (amante di Guardì ) ha il suo bel programma personale su Raidue:

Segreti per voi”, intorno alle 15, tutti i giorni. Una marchetta che vedono soltanto i suoi parenti. E la Rai, paga! Non solo, un certo dirigente Colombino (gambizzato – dai fratelli di lei, si dice – per aver estorto danaro e non si sa che altro a una ragazza napoletana, promettendole vanamente di lanciarla come cantante – episodio subito messo a tacere –)  parte con un programma: “Emozioni TV” . Costui mi fa chiedere da Totò Jacobone (il famigerato impresario-  magnacer) se voglio scrivere io i testi del programma, tanto firma lui e poi dividiamo: essendo io inviso a qualcuno molto potente in Rai… Ma va?! Naturalmente, rispondo picche.

Finalmente, ai primi di maggio, un certo Franco Matteucci, grazie ad una sua personale amicizia colla segretaria di Miccio, Cristina Scalese, mi fa fare una marchetta-mangereccia (nel senso che mi danno due lire, utili per campare qualche mese): dieci pillole da tre minuti per “GREEN” di Videosapere.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                                               

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

XIII

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Una cosa penosa

 

 

 

 

 

Me ne stavo a sedere in  casa, era una calda sera d’estate e mi sentivo spento.

C.Bukowski (Musica per organi caldi)

 

 

 

 

Il programma era carino, ma il mio intervento era una cosa penosa. Meno male che andava in onda a mezzanotte e non l’ha visto nessuno!

Avevo chiesto tre cretinate di scenografia per delle gag e ne hanno portata una. E pure sbagliata! Sono venuti con due telecamere e due lampade della mutua , per girare a casa mia e la “regista” chiedeva a me cosa doveva fare… In pratica, avrei dovuto satireggiare uno dei tanti tuttologi che infestano le televisioni. Proff. (con due effe) Gavino – Tuttologo. Recitava la targhetta d’obbligo posta davanti a me. Mi avrebbero dovuto riprendere in campo stretto. Avrei dovuto millantare cultura e agganci potenti, grazie ai quali potevo vantare quello spazio in TV. Avrei dovuto parlare delle ultime tendenze giovanili e rispondere a delle finte lettere. La mia scrivania sarebbe stata un’accozzaglia di carte, libri, e di oggetti di pessimo gusto. I testi che avevo preparato erano davvero buffi, ma non riuscii a dare ai pezzi la mia solita incisività. Troppo pressapochismo e troppa confusione mi circondavano. In chiusura, la telecamera avrebbe dovuto allargare il campo ed avrebbe svelato l’ultima gag: sedevo in mezzo al prato davanti a casa mia e la scrivania non era altro che un piano di legno poggiato su dei secchi.  Sarebbe stato semplicissimo piazzare il set sul campetto erboso e la telecamera sul mio balcone. Niente da fare. Troppo ardito per loro. Avevo chiesto una cartina di due metri per uno, raffigurante un’Italia piccola al posto della Sardegna e viceversa, da usare come fondale: niente. Mi portarono una cartina normale con la Sardegna al suo posto, solo un po’ più grande. Che cazzo di gag è?! Quindi girammo col set contro una finestra. Girammo dieci puntate in meno di un’ora. Penoso. Proprio una marchetta, che ho accettato e buttato lì a malincuore, soltanto perché avevo fame! Eppure, questo Matteucci e lo stesso direttore Sabino Acquaviva, mi avevano assicurato che la struttura di Videosapere aveva soldi da buttare: per chi volevano loro naturalmente, quelli in alto! Praticamente, passai tutto il ’95 a rincorrere e ad essere preso in giro dai soliti noti della Rai: 

Porta progetti, porta cassette, porta curriculum, vediamo cosa si può fare, sicuramente risolviamo, ma non conosci qualcuno? Certo che uno come te sarebbe un bel regalo per la struttura: dipendesse da me! Fai passare questo momento di casino, sentiamoci tra un mese, dammi un po’ di tempo…” E altre amenità del genere.

 

Intanto, cerco di fare altro: scrivo tre libri, invento nuovi progetti, scrivo soggetti per film e fiction, appunto battute su battute, tanto, prima o poi tornano utili. Provo anche a propormi ad alcuni teatri, ma faccio paura. Molfese mi vorrebbe al Teatro Tenda di Roma (così mi dice Rita Vicario), ma è di destra e pretende una satira da destra… Costanzo è P2 e consigliori di Berlusconi; Corsini del Teatro Vittoria nemmeno mi risponde… Eppure so tenere un palcoscenico come pochi in Italia e sono uno dei DUE AUTORI ORIGINALI DI QUESTO PAESE!  Niente da fare per un libero pensatore, alla larga – per scelta antica e coerente – dai carri del Potere. Ai primi di Luglio, invito ripetutamente Cristina Scalese a venire a trovarmi: vorrei chiederle – lontana dalla Rai – di darmi una mano con notizie che soltanto lei, segretaria di Miccio, può sapere sulle porcherie dell’Azienda omertosa (altro che Cosa Nostra!). Sì, ho deciso di portare la Rai in Tribunale! Ma Cristina ci tiene al posto e a suo marito: che deve fare carriera nella stessa Rai… e non accetta i miei inviti. Anzi, è lei che invita me, perentoriamente, a smetterla con “queste idee” e ad avere pazienza (sic!). L’8 luglio 1995, scopro di non essere il solo Autore gabbato da disinvolti dirigenti Rai. Con un certo Patrizio Baroni ed altri dieci-quindici colleghi ci riuniamo a Roma, alle 11, presso gli studi Titania  in via P.S.Croce 131/C. L’intento è quello di dar difesa, vita, e voce a un Movimento di Autori di progetti televisivi originali, che, invitati da qualche dirigente Rai a proporsi e a proporre i loro lavori, vengono regolarmente scippati, senza nemmeno un grazie. Questo è dovuto alla mancanza di leggi specifiche di tutela per il Diritto d’Autore, ma non è tollerabile che dei lestofanti, pagati lautamente dai cittadini, approfittino in maniera così becera e pedissequa. Proprio io stesso sono vittima, per stupidità figlia della disperazione, di un’ennesima beffa. Proprio in quello stesso periodo.

 

Si tratta di questo: Nepote, capostruttura leghista di Raitre e uomo dell’On. Marano, mi mette in contatto col suo amico Mirabella (vacuo e vanesio palyboy, diventato ricco autore-regista-conduttore, grazie a un garofano perenne all’occhiello, nei famigerati anni 80; alla spilletta di F.I. poi; e a non so che altro distintivo adesso…). Mirabella mi dice che sta preparando un nuovo programma e vuol sentire la mia opinione, perché non hanno, lui e i suoi coautori, le idee ben chiare su cosa fare. Però hanno già il contratto!

Riflessione: ma come?! Io sono un personaggio televisivo di portata storica ( basta controllare i dati Auditel, sempre disponibili, dall’86 al ’90); sono pieno come un uovo di idee forti ed originali; sono uno dei pochissimi in grado di sviluppare e redigere qualsiasi tipo di copione in tempi supersonici; uno dei tre in Italia che conosce la TV e sa inventare gag e battute fulminanti TUTTI I GIORNI!  E sto a casa. E questi tipi, braccia rubate all’agricoltura o alla pastorizia e culi rubati alle sedie dei bar dei loro paeselli, HANNO UN CONTRATTO VIA L’ALTRO E SENZA NEMMENO UN’IDEA AL MONDO?! Ma su cosa basano un simile contratto i responsabili Rai? Transeat.

Gli dico, vediamoci, ma lui è in macchina diretto non so dove, ma molto distante dal Lazio, e mi prega di parlarne per telefono, intanto. Gli spiffero uno dei miei pallini fissi: satira politica legata al quotidiano (sono o no il padre di “Telegiornale della Pera”, poi divenuto “ Striscia la notizia”( firmato: Ricci) – “Telegiornale zero” - “ TG one” (firmati: Chiambretti) e chissà che altro ancora?). Quindi gli racconto la mia visione di una redazione giornalistica di un piccolo quotidiano di provincia, zeppo di personaggi divertenti, alle prese con le notizie del giorno e commentate salacemente dall’ultima ruota del carro: il centralinista (che avrei scritto e interpretato io stesso). Una location formidabile per l’uopo! Mirabella ride, si diverte, ma dice che non è questo lo spirito del programma che hanno in mente. Eppoi: “Fare satira politica di questi tempi è rischioso. Comunque ci vediamo appena rientro a Roma.” Sparisce per sempre dalla mia vita. Mi torna in mente perché il 26 luglio 1995, appunto, parte questo ennesimo flop, targato Mirabella (e Voglino?) che s’intitola “ TIVVUCUMPRA’ ”. Dopo una campagna di lancio portentosa, fanno 1.300.000 telespettatori alla prima puntata. Alla terza, sono già scesi a 900.000 ! Meno ascolto di un cartone animato, che costerebbe alla Rai quanto la lacca che consuma Mirabella in una puntata.

Ovviamente, non lo vedono nemmeno a Lourdes o a Fatima. Però loro, “gli autori”, intascano una montagna di soldi e continuano a rubare il pane mio, dei miei figli, e dei miei colleghi validi! Capisco i giochi, anche se non mi adeguo, e non la faccio tragica.

Però, qualche tempo dopo, la solita ghenga, manda in onda “LA TESTATA”, altro flop memorabile (dovuto alla loro assoluta mancanza di mestiere e di idee): ma, cazzo… è la mia idea della redazione di provincia!!!

Il 28 luglio, dietro segnalazione di Vincenzo Vita, mio amico e dirigente del PDS, sento Giovanni Tantillo del palinsesto di Raitre. Lui mi dice che non può fare niente per me, ma che certamente, se parlo con Bruno Voglino… Io gli dico che Voglino è il primo dirigente della Rai che mi ha chiesto la tangente, nell’82-’83 e che quindi… Tantillo passa bruscamente dal confidenziale TU al LEI e mi scarica scortesemente, dicendo che di quelle cose lui non sa niente e niente vuole sapere. Vorrei spiegargli personalmente la vicenda e così lo richiamo il 24 e il 28 agosto e altre numerose volte, lui c’è, ma si nega.

 

Il 29 o il 30 settembre, vedo in Tv un brandello di un altro mio vecchio progetto:

” CELLULOIDE ”. Si fa chiamare “Producer” ed è targato Dandini-Masenza (e Voglino?). Anche questo grande evento, dopo una campagna di lancio esagerata, arriva a malapena a toccare il milione di ascoltatori. In prima serata e senza ombra di concorrenza da parte delle altre reti (sic!). Mando l’ennesimo fax a Vita: sto per essere sfrattato di nuovo.

Pur con la disperazione e i debiti che aumentano, cerco di farmi forza, cerco di fare autoterapia  ridendo e scherzando su tutto, aiutato dall’amore della mia compagna e dal pensiero che sono a Roma per fare la guerra:

io  che non ho nemmeno voluto fare il militare!

Ma le forze e la salute stanno andando a pallino. E proprio a mio figlio Lucio Wilson, venuto a trovarmi in quei giorni, spiego che sto qui a combattere soprattutto per lui e le sue sorelle (che in quel periodo non mi parlano perché sono un fallito e non le ho potute aiutare, quando avevano bisogno di sostegno economico…). Cerco di far capire a mio figlio che per me sarebbe molto più facile la vita se me ne tornassi in Sardegna, dove ho sempre un gran nome. E dove, facendo una trentina di serate l’anno, potrei vivere da ricco pensionato. Tutti i giorni al mare, a pesca, a cercare funghi o asparagi: a seconda delle stagioni. Quanto mi manca la mia terra! E quanto certi sardi addormentati avrebbero bisogno di me e del mio lavoro di fustigatore e di volgarizzatore dei grandi e piccoli arcani giochi dei politicanti. E quanto avrebbero bisogno di calci in culo gli imbroglioncelli che sono le attuali new entry e si spacciano per “i volti nuovi della politica sarda”!

 

In uno stato d’animo a livello della credibilità di Umilio Fede, accetto di incontrare, nel pomeriggio del 31 ottobre presso l’Hosteria dell’Orso, un mio vecchio conoscente che mi presenterà  Alberto Dell’Utri, interessato a me. Vado all’appuntamento con mio figlio, sperando almeno di rientrare, grazie a Dell’Utri e senza nulla concedere, nel giro Fininvest.  O almeno di avere i miliardi che mi devono: per mancati pagamenti, inadempienze contrattuali gravi, danni all’immagine e quant’altro (la mia vicenda con la Fininvest fu ampiamente riportata dalla stampa nel ’91). Invece all’incontro, oltre al mio “amico”  Antonio Saiu, trovo un certo Enzo Cascarano (uomo di paglia di Dell’Utri). Stiamo insieme fino a sera e, in pratica, mi offrono di creare una lobby anti Costanzo (Maurizio, è troppo di sinistra: parole testuali), con fondi illimitati e copertura politica massima. A patto che mi dichiari schierato col Polo e non rompa le palle a Berlusconi e compagnia cantante. Se voglio, mi possono risolvere anche i problemi con la Rai, ma a loro interessa molto di più contrastare la corrente Costanzo-Mentana-Sposini, in casa Fininvest. Disgustato, li lascio al bar e me ne vado. Io vendo la mia professionalità, non il mio culo.

Mio figlio è fiero di me. Io, quella notte non faccio che piangere e interrogarmi: avrò fatto la cosa giusta? La dignità è un’utopia? Non sarà, il mio, un orgoglio stupido da sardo? Sono sempre stato un uomo coraggioso, leale, coerente con sé stesso e coi suoi sani princìpi o un coglione pieno di sé e basta? Perché sono così diverso dal resto del mondo che mi circonda? Sbaglio io o loro, sempre pronti a vendersi per un piatto di lenticchie? E, a proposito di lenticchie: che cazzo mangiamo domani?

 

Mi alzo prostrato e mi continuo a lambiccare il cervello per trovare una via d’uscita.

Il 6 novembre, richiamo per alcune volte Tantillo, poi Gazzara, Fuscagni, Nepote e Miccio. Insomma, tutti e per tutto il resto dell’anno. Chiedo addirittura aiuto a Mons. Sorgi, critico dell’ “Avvenire” e mio estimatore. Anche lui si muove in Rai per darmi una mano, ma niente da fare. Promesse. Soltanto altre promesse. Il 20 dicembre, dalle 11,30 alle 13, mi incontro con Vincenzo Vita a Botteghe Oscure. Cerchiamo insieme di trovare una soluzione a questo scandalo ignobile che è il comportamento della Rai nei miei confronti. Ma lui, pur con immensa buona volontà, oltre al solito Tantillo non può andare: la Rai è ostaggio delle destre. Tantillo, chiamato da Vita in mia presenza, dice che, quasi sicuramente salterà fuori un lavoro per me in primavera. Campa, cavallo… L’agonia continua, lacerante e inarrestabile, fino alle ore 18 del 26 febbraio ’96. Nel frattempo io non ho lavorato e i miei collaboratori nemmeno. Sono stato sfrattato tre volte per morosità e, relegato alla morte civile per colpa del mio talento e della mia onestà, ho fatto una vita d’inferno. Anzi, semplicemente non sono esistito. Un po’ come il nonno di un mio amico di Santa Giusta: era alto 1,48 e se ne andava a lavorare in campagna; il grano era alto 1,70-1,80, così da giugno a settembre nessuno lo vedeva mai…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                        XIV

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Era il 26 febbraio 1996

 

 

 

 

 

 

 

 

Il luminare gli diede due mesi di vita. Ma lui non aveva i soldi per la parcella. Così gliene diede altri due.

L. Salis

 

 

 

 

 

Era il 26 febbraio 1996. Dovevo prendere una decisione drastica. Ripartito Lucio Wilson, passai quattro settimane a spulciare, pagina per pagina, tutte le mie vecchie agende. Tutti i foglietti sparsi e i blocchi degli appunti. Ricostruii, momento per momento, la mia kafkiana disavventura con quei loschi figuri. Incontri ed argomenti censurati dalla mia mente tornarono violentemente a schiaffeggiarmi. Preparai una memoria pignola e precisa, con denunce argomentate e inconfutabili. Appena fui pronto, chiamai l’avvocato Dino Quaglietta dall’unica cabina non vandalizzata, delle 28 presenti nel borgo. In casa non avevo più il collegamento telefonico da un pezzo. Usavo la cornetta per schiacciare le noci. Nulla di personale, ripetevo ad ognuna.  L'unico mio legame col mondo esterno era un cellulare che avevo avuto in cambio di un mio articolo per un giornale. Ma il numero lo conoscevano in pochi e quei pochi non lo usavano. La differenza tra un attore comico e un COMICO consiste in questo: un attore comico apre una porta in maniera divertente. Un Comico apre le porte alla Comicità. Memore di questo e del fatto che un Comico  rimane tale anche in punto di morte, scrissi perlomeno una battuta: “Ho un family, ma siccome non mi chiama nessuno, dovrei chiamarlo orphany”. 20 anni prima, avevo scritto che, più che isolani, i sardi erano isolati. E così ero io, isolato, a un tiro di mortaio dall’Urbe.  Privo di trasporti, il borgo era una prigione. Una prigione carissima, contrabbandata per centro residenziale e abitata da esseri tristi e spocchiosi che si ignoravano accuratamente. Pregai Dino di prendere appuntamento con qualcuno del Comando Generale della Guardia di Finanza al più presto.

 

Qualche ora dopo, trillò il telefonino obsoleto:

“Il dottor Lucio Salis? (non sono mai stato dottore e nemmeno infermiere, ma vi sembrava il caso di puntualizzare?)

Qui è l’ufficio del Dott. Brando Giordani – disse la signora. – Il direttore vorrebbe incontrarla. Può dirmi quando le è comodo?”

Se era uno scherzo era di pessimo gusto. Il direttore di Raiuno voleva vedermi? Perché? Chi gli aveva dato il numero dell’orphany? Corsi nuovamente fuori e richiamai l’avvocato, informandolo della novità e pregandolo di temporeggiare. Quattro giorni dopo, incontrai Giordani al 5° piano del palazzo di viale Mazzini. Fu gentilissimo e disponibile. Come tutti coloro che hanno sposato una miliardaria. In breve, mi disse che sapeva benissimo quale “prodigio io fossi… Così come sapeva che ero il papà di Striscia la notizia e che, dovendo andare in pensione, voleva lasciare l’azienda con un colpo di coda: abolire lo squallido programmazzo, pre e post TG,  con una falsa zingara e tentare di controbattere la striscia di Canale 5 con un programma di satira intelligente targato Raiuno. In diretta concorrenza. Lei è l’unico che lo può fare – affermò - con forti speranze di successo.” Per un periodo indeterminato volteggiai nel nulla, inghiottito e risputato da gorghi profondi e sparato tra le nuvole a fluttuare. Poi, con l’arrivo del capo dell’ufficio contratti, convocato da Giordani, capii che probabilmente si trattava di una cosa seria e che quello era il più bel regalo della mia vita. Tornai a casa in trance. Incurante delle quasi tre ore di pullman vari, per percorrere 30 km (!), e di tutto quello che mi succedeva intorno. Ci saremmo visti il mercoledì successivo e io avrei portato dei progetti. Tornato nella casa deserta, il dolore più grande fu quello di non poter condividere la mia euforia con la mia dolce compagna. Diventai immediatamente operativo. Purtroppo, tutte le location migliori me le ero già giocate. Le idee nuove per poter ambientare una striscia di satira quotidiana, portate precedentemente ai vari dirigenti Rai, erano state scippate ed erano diventati programmazzi fatti da altri: “Telegiornale zero” con Chiambretti; “La Testata” con Mirabella; “Un fatto, un Uomo, una Storia”, seppure a segmenti e in forma seriosa, con Enzo Biagi. Così mi lambiccai il cervello e finalmente venne fuori l’idea vincente: avrei ambientato la striscia nei Caraibi! Grande! Belle ragazze abbronzate e bei giovanotti, musica allegra e festosa. Si sarebbe prolungata virtualmente l’estate. Set: un bar all’aperto tra spiaggia e palme con dei tavolini obbligati e un bancone. La spiaggia non l’avremmo mai vista: stava dalla parte delle telecamere. Il plot: Gavino, il sottoscritto, si era ritirato ai Caraibi ed aveva aperto un bar, il BIRIMBO. Birimbo sarebbe stato anche il nome di uno strano uccello presente in campo, un papallo, incrocio tra una palla e un pappagallo parlante. Che avrebbe dovuto commentare le battute con delle pernacchiette, dei versacci, e delle parolacce da bambini, cacca, schifo, bleah, ecc. (Pensate a quanti gadget avrebbe potuto commercializzare la rai: pupazzi di varie dimensioni, zainetti, diari, t-shirt). Ai tavolini, tre anziane zie: la zia di Silvio, la zia di Massimo, e la zia jolly (attrice versatile coi dialetti che, di volta in volta, a seconda di chi le avrebbe sparate più grosse, sarebbe stata la zia di Bossi o Fini o di chi vi pare). A un tavolino appartato, apparecchiato come una centrale operativa della polizia: cellulari satellitari, pc note book collegato con  Internet e con l’Ansa, mazzette di quotidiani italiani, ecc., sedeva il losco avvocato Prestiti, in fuga dai magistrati italiani. Proprio grazie a lui venivamo a conoscere le notizie della giornata e le avremmo potute commentare, con molto disincanto. Prestiti sapeva tutto di tutti. I giudici sapevano tutto di lui, tranne dove si nascondeva. A colorire il tutto, una splendida ragazza, tanta fuori e tonta dentro, aspirante show girl, che non sapeva fare assolutamente NULLA. Non cantare, non parlare, né ballare: perfetta per il ruolo, visto l’andazzo televisivo in Italia e le doti nulle delle varie pameleprati & c. La povera era finita laggiù con un dirigente televisivo che le aveva detto: “Vieni in vacanza con me e farò di te una star. E l’aveva fatta star… ai Caraibi. Lui era rientrato in Italia e chi s’è visto s’è visto.

Queste cose le avremmo apprese dalle zie pettegole. Perché le zie stavano lì? Semplice: le zie dei poveracci, quando si avvicinano le ferie, vengono parcheggiate presso altri parenti più poveracci di loro o in qualche ospedale semivuoto; le zie dei potenti… ai Caraibi. Una bomba!

 

 

Portai il progetto a Giordani e lui, entusiasta, mi fece preparare il contratto. O almeno diede l’ordine, davanti al mio fido Dino. Già che c’ero, e che Birimbo sarebbe andato in onda solo dall’ottobre successivo, Giordani mi chiese se ero disponibile a dargli una mano per uno show estivo domenicale. Una solenne porcheria che sostituiva l’altra cosa inguardabile che era la Domenica in della Venier. Si chiamava Gelato al limone ed era già andato in onda l’anno precedente con ascolti zero, gradimento nemmeno a parlarne. Ma queste cose sono raccontate tutte più avanti. Morale: nulla di tutto quanto promesso venne mantenuto. Ma la memoria per la denuncia alla G. di F. era bella e pronta. Dino cercò in tutti i modi di riuscire a venire a capo del comportamento dei potenti signori della Rai, ma senza risultati apprezzabili. Decidemmo di agire. Veniva a prendermi una volta a settimana e ci facevamo quel bel viaggio fino ai quartieri generali della Finanza. Verbali, interrogatori, mattinate estenuanti e prove di memoria terribili. Finalmente, il giovane e brillante capitano e il suo maresciallo erano pronti a presentare al PM una bella denuncia circostanziata, dove si evidenziavano decine e decine di reati, e corredata di nomi, cognomi, telefoni privati e di ufficio, codici fiscali ecc. Il PM diede il via all’operazione e i finanzieri rivoltarono la Rai come un calzino. Tutti dentro? Maquandomai?! Tutto a tacere. Salvo qualche piccolo spostamento di piccoli dirigenti, tutto come prima. Anzi, no… La G.di F. mi convocò ancora una volta, per reclamare da me 12 milioni di IRPEF “evasa”. Ovviamente non era assolutamente vero! Quella somma richiestami in base ad un ipotetico incasso mio del 1992, da parte della Rai, non la dovevo affatto. Quello non era un guadagno, anzi! era in realtà un parziale rimborso spese per Uno pomeriggio: tre-quattro mesi di viaggi aerei e permanenza lavorativa a Roma, con pernottamenti all’Holiday Inn –voluti dalla Rai -, pranzi, cene, ecc.

“Ma come?! – chiesi al capitano- Io, per primo rompo il muro di silenzio e di omertà, vi porto in un piatto d’argento le teste di malfattori comuni che rubano miliardi pubblici e stanno affossando la più grande industria culturale del Paese, e voi: accertate tutto, insabbiate tutto (per ordine di chi?), e poi venite a contare i peli del culo a me? Ma siamo impazziti?! Io mi sono cancellato dall’ufficio IVA nel 1991, quando già non lavoravo più. La cancellazione via raccomandata non era valida? Ma non avevo una lira nemmeno per mangiare, come potete pensare che potessi permettermi un viaggio a Cagliari solo per questo e tantomeno di pagare un commercialista per presentare, ogni anno, un 740 a zero lire?” Ma la legge… insisteva l’ufficiale. “La legge? Quale legge?! La madre di tutte le leggi, la Costituzione, dice che io ho diritto alla casa e al LAVORO. Dov’è il mio lavoro? Dove sono i miei diritti? Chi difende i miei sa-cro-san-ti  di-rit-ti?! O io per voi ho solo DOVERI?” Dino mi portò via prima che mi ammanettassero per oltraggio a pubblico ufficiale.

Ancora oggi, per quella storia, vengo continuamente “avvisato”, “convocato”, “diffidato”. Infine, pretendono da me soltanto ottocentomila lire, più le spese processuali e chissà che altro…

Manco morto. Io non tollero ingiustizie. Voglio andare in galera. Non avranno mai una lira da me! Andrò in galera e farò compagnia a Borrelli, Caselli e Di Pietro: tanto, questo è ormai l’andazzo in Italia. I criminali fuori o in parlamento e la gente pulita, capace,  e ligia alla berlina.

 

Torniamo a Gelato al limone. Nel corso del nostro secondo incontro, dopo una settimana, Giordani convoca la capostruttura Elena Balestri, e mi chiede un grande favore: prendere in mano anche le sorti del programma estivo Gelato al Limone, mentre avrei preparato la striscia per ottobre. Mi disse che il programma era stato orrendo e un fiasco d’ascolto, l’anno precedente, e che la rete al momento aveva soltanto i soldi per quella produzione; quindi, visto che tempo ne avevo e bisogno di guadagnare anche…

Accettai subito. La Balestri mi fece chiamare dal dirigente incaricato, Luciano Pinelli, qualche giorno dopo. Il primo incontro con questo Pinelli è sintomatico e tutto da gustare.

Mi presento in via Monte Zebio 25, presso la redazione staccata della Rai, puntuale come una cazzata di Berlusconi. Mi riceve un pennellone dalle guance cadenti, che si porta subito l’indice al naso per pregarmi di fare silenzio: alla scrivania grande, infatti, siede un padrone. Costui è un tipo dall’aria sudicia e stropicciata, sembra massiccio, porta la barba e tiene le sue scarpe zozze posate sui fogli che giacciono scomposti sul piano del tavolo; parla confidenzialmente al telefono con qualcuno che si deve ricandidare

Ovviamente, dev’essere Pinelli e penso a come fanno carriera questi signori. Intanto, poggio silenziosamente la mia cartella su una poltroncina sdrucita e mi guardo intorno: sembra di stare a Beirut, dopo i bombardamenti. I locali sono fatiscenti, sporchissimi e disordinati. Saranno tre- quattro stanze, una più maltenuta e disordinata dell’altra: la Rai? Bah! Il pennellone mi guarda ossequioso come un maggiordomo in attesa di assunzione, chi sarà? Il massiccio continua a parlare, incurante, di nomine, di contratti favolosi, di c’è da fare il culo a questo o a quello, parla badando accuratamente a non far nomi: tutti sono l’amico di qua, il tipo di là, quello con la macchina grande, eccetera.  Dopo un buon quarto d’ora, accendo una sigaretta. Il pennellone deferente mi si precipita subito incontro e, sempre sussurrando, mi dice che non si può fumare lì dentro. ‘azzo! Il tipo al telefono, Pinelli o chi cazz’è, sembra uno zingaro scampato a una retata, manca solo che rutti o scoreggi, siamo in una specie di letamaio e non si può fumare?! Mostro di aver capito e me ne vado nel vano scale. Il maggiordomo mi raggiunge e, sebbene stiamo fuori dall’ufficio, a venti metri dal boss, lui continua a parlare con voce bassissima: “Abbia un po’ di pazienza. Ha quasi terminato. Fumi, fumi pure, qui.”

- Ti abbraccio, caro! – grida un paio di volte il telefonista. Io ho già fumato due sigarette, il pennellone untuoso è tornato dentro, e la situazione mi sembra surreale. Ecco il maggiordomo che ritorna, armato di un grande sorriso, e mi invita ad entrare. Una volta al cospetto del boss, che non ha cambiato posizione, mi tende la mano e:

- Sono Pinelli. – annuncia – Piacere. Lui è il nostro capo degli autori, Ricci. Questo è il grande Salis, ce lo manda in regalo il gran capo in persona. –  e mi sbatacchia una mano sulla spalla.

Ma cosa devo vedere! Il maggiordomo è Pinelli in persona e il boss è: “ il nostro capo degli autori”… Non ne ho mai sentito parlare, non dev’essere granché. Lui però è sicuro del contrario, e si vede,  e mi porge a malapena la punta delle dita, senza scomodarsi.

- Sa, era una telefonata molto importante, anche per il nostro programma. – mi comunica, complice, il buon Pinelli. Poi, mi fa sedere. Prendiamo posto entrambi di fronte allo zingaro-capo degli autori, che sposta di malagrazia i fogli che ha davanti, dopo aver messo giù i piedi, e prende da un cassetto dei fogli bianchi.

- Cominciamo la riunione. – fa Pinelli. E i due partono con una sequela di luoghi comuni che vi evito. Roba da far accapponare la pelle. Solo qualche chicca: essendo un programma estivo, dobbiamo collocarlo in un villaggio vacanze… i personaggi divertenti possono essere soltanto il bagnino, il venditore di cocco, una bella figa al bar. No, molte belle fighe… (sennò, quando scopano? Penso io) e via smerdando. Io, zitto. Loro sparano le solite cazzate trite e ritrite, come se stessero progettando lo Shuttle nuovo e intanto tracciano schizzi sui fogli. Io, zitto. Finalmente, Pinelli si rivolge a me:

- Allora, che ne pensi? - (l’altro non mi ha mai nemmeno guardato in faccia: lui sa benissimo chi e che cosa sono, ma è lui “il capo degli autori”! non mi sarei voluto nei suoi sudici panni.) Dal canto mio, già la sera prima dell’incontro, mi ero sentito col mio collaboratore di sempre, il buon Filigheddu, e in una chiacchierata di un quarto d’ora erano già venute fuori alcune idee. Quindi, sicuro del mio, conto fino a cinquanta, mi mordo la lingua, poi espongo semplicemente qualche IDEA.

( Già alla radio, molti anni prima, avevo raccontato una mia gag che era questa: “Grande festa all’8° piano della Rai. Immenso salone, ricco buffet, champagne a volontà, ma la serata non si anima: da una parte, delle splendide donne, tutte bellissime ed elegantissime; dall’altro capo del salone, un gruppo di uomini intenti a parlottare tra loro. Finalmente, arriva il presidente e, constatato il clima glaciale, capisce il problema e cinguetta, festoso: - Ma che sciocco! Non vi siete ancora presentati. Ci penso io: i signori alla mia destra sono gli autori della Rai, le gentili signore sono… le IDEE. -)

Memore di questa cosa, parlo pacatamente:

- Io direi, se siete d’accordo, di non cadere nel banale. Certo, andiamo in onda in estate e molta gente sarà già al mare; è possibile ambientare il lavoro in un posto di mare, però, cerchiamo almeno di evitare i personaggi scontati. –

- Proponi, proponi. – fa Pinelli.

- Come prima cosa, - dico – proporrei una base forte di personaggi portanti: attori bravi e poco conosciuti: il pubblico ha fame di facce nuove, oltre che di idee nuove. Questi devono interpretare delle maschere inedite, niente bagnini o simili; vorrei dei personaggi che uno non si aspetta di trovare in quella location – qualunque essa sia – però hanno tutti un valido motivo per esserci. Personaggi ben costruiti e identificabili, ai quali il pubblico si affezionerà subito. Secondo: la Rai ha appena perso i diritti sul calcio… e che, dobbiamo aspettare che ci prendano in giro gli altri della concorrenza? Prendiamoci in giro per primi e vi dico come la vedrei: inventiamo un campionato, come quello vero, di calciobalilla! Torneo a sedici squadre, eccetera. Una specie di Tutto il calcio minuto per minuto, ma in televisione. Deve essere il filo conduttore della trasmissione. In quasi tutte le spiagge ci sarà qualche calciatore famoso in vacanza; se non c’è, ce lo portiamo noi, e facciamoli giocare vestiti con la divisa della loro squadra, scarpette e tacchetti compresi. Che ne so? Baggio del Milan contro Casiraghi della Lazio. Magari un difensore e un attaccante per squadra. Il tutto commentato, in collegamenti di uno-due minuti per volta, da cronisti veri o da personaggi comuni o da personaggi dello spettacolo.

Arbitri veri o ex glorie del calcio, tipo Sivori o Tardelli, o Altafini.  I collegamenti, anziché farli con le troupe ENG, facciamoli col videotelefono. La telecom sta cercando di lanciare il servizio: abbiamo uno sponsor garantito; uno sponsor che ci porta pure soldi, anziché farcene spendere con le minitroupe in giro. E inoltre, se la qualità delle immagini non sarà perfetta, non sarà colpa nostra. –

Queste erano IDEE, cazzo! Andai avanti ancora per un pezzo, senza scoprire tutte le carte, notando che anche il capo degli autori si stava man mano ammosciando sul tavolo, interessatissimo. Pinelli sprizzava gioia da tutti i punti neri. Ci lasciammo con un appuntamento per le nove del giorno dopo.

Alle nove meno dieci stavo davanti al portone, ma non mi aprì nessuno. C’è da dire che non ero solo. Mi accompagnava, infatti, un attore che avevo già deciso di scritturare: Mimmo Mignemi, da vent’anni nel Teatro Stabile di Catania, per il quale avevo già creato il personaggio di Ingmaar Jhoahnsson: ex assessore di Stoccolma, emigrato in Italia – paese dei suoi avi – per fare il cameriere, in attesa di diventare assessore a qualunque cosa in qualunque città. Avrebbe parlato di mirabolanti progetti con accento catanese, scusandosi per il suo italiano minato da quel forte accento nordico. Io ero anche senza auto e Mignemi mi veniva a prendere da Roma, mi accompagnava in redazione, stava con me a colazione e a cena e poi mi riportava a Valcanneto e lui se ne tornava a Roma. Un po’ per amicizia e un po’ per la ghiotta occasione che gli offrivo. Lui non aveva mai fatto televisione. Avevo trovato altri dieci milioni in prestito e anticipavo io tutte le spese, benzina compresa.

Quindi, stavamo lì con Mimmo, quando verso un quarto alle dieci arrivò Pinelli. Aprì con le sue chiavi, si scusò per il ritardo, Mimmo ci lasciò e io e il dirigente andammo in redazione. Ricci non c’era. Chiesi di lui e Pinelli mi sorprese: “ Non viene più. Da oggi, sei tu il capo degli autori. Più tardi ti faccio fare la copia delle chiavi.” Mi portò nella stanza più grande, già redazione di “Verdemattina”, e mi assegnò la scrivania del capo (disse lui. Quanto ci tengono alle gerarchie questi!), quella che dominava tutto lo stanzone pieno di altri tavoli, scatoloni, due computers, un paio di televisori, eccetera. La “mia” scrivania aveva tre apparecchi telefonici. Lui mi diede il free  per tutti, ma: “ Quando ci sono io – disse – non usare questa linea, perché serve a me.”

Recepito. “ Ora posso chiamare i miei collaboratori ed avere co-autori veri. – pensai -

Finalmente posso fare un programma in graziadiddio.”  Quanto mi sbagliavo!

Così, dal 27 marzo 1996 fino al 20 maggio, inventai un signor programma estivo; lavorando giorno e notte e andando in redazione a Roma (via Monte Zebio 25 – di cui possiedo ancora le chiavi) tutti i giorni, dalle 9 alle 22 quando non alle 24 ed oltre (Pinelli si divertiva a tenermi lì:- Dopo ti devo dire una cosa… - mentre stava per ore a gigionare al telefono con la sua amante o con qualche sgallettata nel suo mirino). Il programma sarebbe dovuto andare in onda dal 7 luglio al 22 settembre, per 12 puntate. Anche qui, i soliti giochetti. Lavoravo sotto il ricatto di un contratto che non arrivava mai. Contratto ordinato immediatamente da Giordani e più volte sollecitato dal mio avvocato Dino Quaglietta, ma tenuto a bagnomaria da Pinelli e Balestri. Lavoravo cercando di far ragionare un impreparato e viscido curatore, Pinelli appunto: un miracolato proveniente dall’archivio e completamente digiuno di tv, ma presuntuoso e… interessatissimo. Lui voleva imporre soltanto gente sua, assolutamente inadeguata, e voleva tenere gran parte del budget per gli ospiti. Io ribattevo:  “Se facciamo un bel programma, gli ospiti, quelli di serie A, vengono di corsa e gratis.” Ma lui era irremovibile. Perché? Ma perché in Rai (chiedere ai clan di Baudo, Guardì, Venier, etc.) i cantantini di serie B e serie C  PAGANO LORO per partecipare. Pagano tanto e al nero! Da sempre. Come al Festival di S.Remo: ricordate le mie tre canzoni più votate dalla Commissione e scartate dagli organizzatori per carenza di mazzatte?

Pagano loro, dicevo, però, ufficialmente, percepiscono un cachet, che viene regolarmente fatturato, ma quei soldi prendono la via del ritorno velocemente. Si dice che la Venier e il curatore De Andreis (Domenica in) viaggiassero sui VENTI milioni a ospite. Ho saputo di Gianni Dei, per esempio . Anche se le vittime sono le prime a negare: per ovvie ragioni.

 

 

Insomma, una domenica di aprile, Pinelli viene a pranzo a casa mia. Mangiamo e lui mi costringe a guardare TUTTA Domenica in! Da suicidio. Già la Venier non si regge… Non solo, pretende che prenda i tempi e scaletti il programma: vuole usare quello schema fallimentare per rifare Gelato al limone sulla falsariga di quel flop vergognoso! Cerco le parole adatte per fargli cambiare idea e non inimicarmelo subito. Disperatamente, cambio discorso, poi usciamo a fare due passi per digerire. Pinelli mi prende sotto braccio e mi fa uno strano discorsetto: sulla filippa (cameriera filippina) che costa un sacco di soldi, l’amante pure, la casa al mare… insomma, vuole la tangente. Ma la chiede in maniera gentile. Discutiamo del mio cachet, riprendendo un discorso approcciato il giorno prima in redazione e interrotto per via delle telefonate in arrivo (lui curava anche Unomattina: altra mangiatoia). Conviene che la mia richiesta (di 20 milioni a puntata: cioè, a settimana lavorativa) non è esosa. E’ la cifra ufficiale che prende Chiambretti, che certo non mi vale, e circa metà di quanto prende la Venier, che non ha mestiere, non ha talento  né cultura. E non fa ascolto. Ma questo non glielo dico: credo che sia l’unico al mondo a non saperlo e gli piglierebbe un colpo. Accetta e dice che in un paio di giorni avrò il contratto. Poi riporta il discorso sui diritti Siae. Mi dice che le tre ore che voglio io (su 5 ore e 40 minuti di programma) sono un sacco di soldi; che lui pure vuole partecipare con delle idee (spazzatura), che però i regolamenti gli vietano di accedere ai diritti. Almeno UFFICIALMENTE… Insomma, fingo di non capire. Tornerà sull’argomento qualche giorno dopo, quando gli sollecito il benedetto contratto, ma sempre in maniera viscida e mai diretta. Mi propone anche un grosso business: se gli do qualche idea per un megashow che ha in mano lui , dice,  da realizzare in Russia (per una specie di anniversario dell’inaugurazione del gasdotto che porta il metano in Italia), dividiamo i guadagni a metà. A prescindere da questa proposta, solo per convincerlo ulteriormente della mia capacità di Autore (mi negava insistentemente l’apporto dei miei collaboratori, pretendendo di esaminarli lui per vedere se erano all’altezza…), gli porgo qualche idea al volo: un balletto con la Fracci o equipollente (i russi sono colti e apprezzano l’Arte vera); un concerto con Pavarotti ; uno spettacolo pirotecnico (di grande effetto televisivo e dai costi limitati; una minirassegna di folklore nazionale; un’amichevole di calcio Italia-Russia (o un misto delle due nazionali contro resto del mondo); etc. Cioè: un bel pacchetto, vendibile televisivamente in tutto il mondo – anche tramite home video – con grande ritorno di utili (sponsor internazionali) e di immagine per la Rai e per il nostro Paese. Lui, entusiasta, dice: “E’ fatta!” e mi ripropone l’accordo (suo) per Gelato al Limone e mi ventila una cosa  analoga per Unomattina, che va malino. Io glisso ancora e lui mi scarica. Non so più nulla del megashow russo e, mentre io continuo a lavorare in redazione e via telefono col mio collaboratore Filigheddu, lui trama alle mie spalle: assume una dattilografa milanese che spaccia per autrice televisiva e un tipo di Napoli, amico di Luca Sardella, che: “Anche se non scrive, ha un’agenda con tutti i numeri di telefono dei cantanti. Quello che io intendo come autore utile alla redazione del MIO programma!”. Io seleziono comici e personaggi – bravi, originali, e semisconosciuti: costano meno e diamo al pubblico facce nuove!  -  Tutti personaggi che lui finge di approvare (anche se non era di sua competenza), ma alle mie spalle dice che non farà mai lavorare quelle persone. E mi annuncia, a cose fatte (il 24 maggio, quando io ho già il programma bello e pronto), che io non sono più il capo degli autori (autori che avrei, naturalmente, dovuto scegliere io), né faccio più parte della trasmissione. “Tu sei di Rifondazione Comunista e non ti voglio qui: questa è una rete  che deve essere rassicurante, non c’è posto per le tue idee rivoluzionarie. Qui non siamo a Raitre (?!)

Io non ho tessere di partito, né tantomeno sono di R.C. Capisco che è la scusa di un povero megalomane insicuro e frustrato dalla mia personalità… oltre che dalla mancata mazzetta! Così informo subito l’avv. Quaglietta. Anche per vedere a che punto sono all’Ufficio Scritture (dopo la fregatura di UNOPOMERIGGIO, non è che mi fidi tanto).

Di contratto si riparla, quindi,  per interessamento del mio avvocato, solo per scoprire che, al 24 di Maggio, nonostante il preciso ordine immediato (primi di marzo!) del direttore Giordani, non è mai stato richiesto dal Pinelli! Quando si dice la malafede. 

 

Durante la mia permanenza in redazione, ho avuto modo di scoprire alcune cose interessanti :

1° ) Il signor Luca Sardella, che occupava una scrivania nella mia stessa stanza, incurante della mia presenza (forse della presenza di chiunque, visto che è ben sponsorizzato dalla destra e, si dice, dalla camorra e fa il padrone), faceva delle pesanti telefonate per chiedere il pizzo ad aziende sparse per l’Italia. In pratica: stavano preparando i montaggi per le repliche estive del suo programmino “Verde mattina” (un colossale affare non proprio pulito), e lui diceva pressappoco:  “Se sganci tot (decine di milioni: “sempre molto meno di uno spot”) metto te, sennò metto un tuo concorrente.

La stessa prassi per gli inserimenti del programma invernale, insomma.

So che in Rai, epoca Moratti, stava per scoppiare un grosso scandalo in proposito, messo a tacere dal consigliere Miccio, pare.

(Chiedere a Cristina Scalese, ex segretaria particolare di Miccio. Sa di questa e di altre mille pocherie, ma se la fa sotto e mi ha pregato più volte di tacere e di non nominarla mai.)

Biagio (Luca) Sardella ha intascato dalla Rai nel ’96 cachet per oltre 400 milioni. Più i diritti d’autore e le mazzette per i sottofondi e per le partecipazioni delle ditte. Non è che un cantantino fallito: chi l’ha voluto e chi lo tiene in Rai? Con la sorella di Benedicta Boccoli, Brigitta, fu ospite di Gelato al limone: questo era il livello degli ospiti! Ma Sardella è stato anche ospite pagato di tutti i programmi in mano a Pinelli & Balestri.

Non solo. Nel suo regno di Verde mattina, ha imposto la sua compagna, una sconosciutissima e insipida, tale Janira Majello, che ha percepito solo nell’anno 1996 ben 215.820.000 dai contribuenti. E i professionisti a casa! Sempre il Sardella il giorno 4 marzo ’97, alle ore 12,20 circa si è appropriato in diretta di un carretto siciliano artistico, del valore di oltre 15 milioni, portato per un’asta da un artigiano-artista, offrendo 2.500.000 (dopo aver probabilmente fatto manomettere le linee telefoniche per non far arrivare le offerte). Con chi spartisce Sardella?

 

2°) Tutti i pomeriggi o quasi, mentre io e i miei convocati lavoravamo alla redazione di Gelato al limone, la signora Elena Balestri si intratteneva con Pinelli e Sardella, per un’oretta circa, sotto gli alberi di via Monte Zebio. Di cosa parlavano? Perché, avendo sontuosi uffici a disposizione, avevano necessità di appartarsi lontano da orecchie indiscrete così frequentemente? Questo ci chiedevamo con Mimmo Mignemi e Agostino Penna (musicista bistrattato fino all’inverosimile dal Pinelli).

Si dice anche che durante il programma “Mille lire al mese” (credo che questo fosse il titolo), con Nino Frassica, la Balestri abbia messo da parte non pochi soldini; oltre a costosi regali e viaggi e soggiorni gratis negli USA, ecc.

Il mio avvocato incontrò Giordani per avere delle spiegazioni, circa il comportamento di Pinelli nei miei confronti. Il direttore allargò le braccia, sconsolato, e sospirò:

Pinelli, ancora lui!”

 Il tipo aveva avuto modo di litigare precedentemente con più di un professionista: Giorgio Calabrese, per esempio, la potente M.Teresa Ruta e lo stesso Massimiliano Pani… Giordani sostenne che non poteva, mancando così poco tempo alla messa in onda, cacciare Pinelli (gli avrebbe provocato anche guai e attriti con la sua, di Pinelli,  patrona Balestri); né voleva rischiare terremoti in azienda. Propose perciò all’Avv. Quaglietta di farmi abbozzare, in cambio mi avrebbe trovato uno spazio in seconda serata tutto per me. Sempre in attesa della realizzazione e della scontata messa in onda di BIRIMBO.

Per Birimbo, si era parlato di un appalto esterno* e per questo era stato contattato  Luigi Sciò, antico fornitore della Rai e amico intimo di Umberto Forcella: capo dell’ufficio contratti di Raiuno. Inoltre, l’appalto esterno sarebbe costato alla Rai circa un terzo.

Ma noi siamo andati oltre siamo riusciti, dopo giornate di riunioni e di conti su conti,  a contenere i costi per puntata, pur non facendoci mancare niente, sui 17.000.000 (diciassette milioni). Meno del segnale orario! Forcella, per bocca dello stesso Sciò, ci prende per matti e dice che, per meno di 60.000.000 (sessanta milioni) a puntata, non lo prende nemmeno in considerazione. Il mio avvocato ed io sentiamo subito odore di mangiatoia. L’avv. Quaglietta decide di far scoprire le carte a Forcella e lo incontra. Lo incontra soprattutto per chiudere un accordo finanziario, anche se non a completo risarcimento  (visto che sono in ballo sia la famosa seconda serata che Birimbo), per il mio lavoro e le spese da me sostenute per Gelato al Limone: ci accontentiamo di cento milioni, forfetari. Forcella sghignazza e propone “dieci- massimo VENTI milioni “ (che sono meno di quanto io abbia speso in benzina, pasti e telefonate da casa mia e dal mio cellulare). Decidiamo di accantonare la trattativa: la riprenderemo quando, forti degli ascolti e del successo, sarò tornato ad essere un Vip della TV.

·        Non si può realizzare una striscia satirica quotidiana col personale interno Rai: i tecnici possono essere sempre diversi, per via dei turni, e non si creerebbe mai quella complicità, quel GRUPPO, indispensabili per la buona riuscita del programma.

Naturalmente, non si sa come né perché,  salta la seconda serata e salta anche Birimbo! Colpa di chi? Brando Giordani va in pensione prima di regolarizzare i contratti e il suo successore, Tantillo (il famoso Tantillo amico di Voglino…) dice che di seconda serata non ne sa niente e che Birimbo, pur essendo: “Un ottimo programma, frizzante – originale - intelligente – divertente e pieno di idee”,  non rientra nei piani editoriali della Rete.

 E’ stata rifinanziata La zingara e va benissimo così. “ Per Salis, ottimo elemento, - dice all’Avv. Quaglietta – si parlerà di un contratto non prima di Ottobre prossimo!”

Devo dire, per onestà, che la cassetta con la puntata-pilota di Birimbo è una cosa brutta: siamo stati costretti a farla in pieno agosto* e senza una lira, pur avendo io chiesto a Forcella un anticipo (negato): viste le mie condizioni economiche disastrate. Una “pilota”, inoltre, non costa mai meno di tre-quattrocento milioni (chiedere ai produttori veri). La Rai, invece, mi ha dato, dopo molti affanni, 45.000.000 lordi a cassetta e copioni consegnati. Cifra comprensiva dell’ acquisto del FORMAT e di tutti i diritti di sfruttamento presenti e futuri! Un autentico furto. Qualunque cazzata di FORMAT comprato dalla figlia di Craxi o all’estero lo pagano da uno a tre miliardi.

·        In agosto, si sa, non si trova niente e nessuno; e quel niente che si trova costa il doppio o il triplo. Non azzardandomi a contattare né a impegnare nessuno – prima di avere il contratto in mano, cosa che è avvenuta il 31 luglio - (colleghi, figure professionali, o tecnici: visti i precedenti comportamenti della Rai), ho dovuto rimediare ciò che ho potuto in due o tre giorni: scarsissima scenografia, costumi quasi zero, uno studio di registrazione che era più che altro un garage  (peraltro pagato salatissimo), telecamere starate e senza controllo-camere, né controllo audio; niente luci vere o effetti speciali. Quindi, dopo una giornata di lavoro di diciotto ore, per i continui e ripetuti problemi tecnici, siamo riusciti a montare quasi esclusivamente i pezzi sbagliati o recitati o girati male: per via delle telecamere non tarate. E questo è un difetto di cui ci siamo potuti accorgere soltanto al montaggio. A lavoro finito, quindi. Tutti hanno preteso paghe o soldi al nero ed io mi son trovato ad aver speso 48.000.000 per una porcata, che non mi ha permesso nemmeno di avere il pre-garantito contratto!

Sentendomi ancora una volta preso in giro, ho chiamato Roberto Morrione (coordinatore per la campagna elettorale dell’Ulivo e  fresco Direttore di RAI INTERNATIONAL ), che, prima delle elezioni di aprile, mi aveva promesso copertura e aiuto. Morrione mi fa incontrare con Criscenti, vicedirettore di Raidue. Criscenti mi riceve, vediamo insieme la cassetta di Birimbo e chiacchieriamo per una decina di minuti. Mi dice che è evidente che sono una vecchia volpe della TV, che magari potesse avermi a disposizione… Solite cose, musica vecchia. L’incontro si conclude con una vaghissima promessa: “ Vedremo più in là, se e dove posso sistemarti.”

Da quel momento in poi, si è sempre negato. Da notare che sua omologa nella stessa rete era…  Elena Balestri (trasferita a Raidue, perché?)! Pure il sig. Voglino ha avuto una lunga débacle: da pezzo grosso di Raiuno a Raitre e, infine, giù alla radio, poi consulente di RaiCinemaFiction (?!), quindi playmacker di Raitre, che sta massacrando… Motivo?

In quei giorni incontro anche il neo direttore di Raidue, Freccero. Da notare che dirigeva Italia 1 quando io ero la star del DRIVE IN. Allora mi mandava biglietti di felicitazioni in camerino, come faceva il produttore del resto. Ora non mi conosce e vuole vedere una cassetta… Mi riceve colla punta del naso infarinata, zucchero a velo? Completamente schizzato e paranoico, il sig. Freccero è l’ospite ideale per mettere a proprio agio qualunque furetto invasato. Non certo uno scrittore e un Comico in attesa di lavoro. Sullo schermo del suo televisore gira la cassetta di Birimbo, ma lui non le dà nemmeno un’occhiata. Gli preme di sapere cosa ne pensi io del programmazzo che stanno facendo gli sponsorizzatissimi Dandini e Guzzanti bros. Mi chiede un parere tecnico e io glielo do: è uno dei loro soliti aborti. Tante intenzioni, ma non esiste una location (fondamentale), non c’è un filo logico, gli sketch sono approddati, come direbbe mia nonna: messi lì a caso da una mente malata o da un pasticcione senza la minima idea di come si fa questo lavoro. Non esiste una chiusa che sia una(un finale degno di questo nome). La Dandini che imita Arbore è vecchia e patetica. E strilla sempre e si ride addosso come il peggior Frizzi. Insomma, basta vedere gli indici d’ascolto da videocitofono per capire che c’è qualcosa che non funziona. Il suo gruppo vincente, oltre ad amicizie potentissime, può contare soltanto su un misero ascolto di quartiere. Come sempre. E questo nonostante terrificanti battage pubblicitari, degni di miglior causa. Freccero non capisce. La cassetta con un programma VERO finisce e lui non l’ha nemmeno guardata. Io rispondo ad una sua precisa domanda e lui nemmeno mi ascolta. E’ perso dentro altri mondi più grandi e misteriosi, molto lontani da viale Mazzini. Repentinamente, si alza e scatta verso il videoregistratore, ne estrae la cassetta e non me la dà. “Non mi interessa questa roba. – farfuglia- Sto cercando di fare qualcosa di nuovo.” Come Macao? Gli chiedo. Ma lui, come ho detto, insegue omini verdi da qualche altra parte della galassia. Certo che Raidue deve essere sempre diretta da un genio incompreso: Sodano, La Porta, Freccero… A quando Pluto e il mago di Arcella?

 

Anche Morrione, dopo alcuni incontri, telefonate, promesse, alle ore 11  del 30 settembre, nel suo ufficio di Saxa Rubra mi dice: “Mica comando io! Non so proprio che cosa fare per aiutarti. Posso riparlare con Melodia, Tantillo, o con Nino Criscenti; di più non posso fare.” Io gli propongo:- Minaccia le dimissioni, fai casino. Insomma, anche tu sei stato recentemente una clamorosa vittima (anche se ben stipendiata) di una discriminazione. Sei pure in causa con l’Azienda! Pensa a come sto io da sei anni: e senza essere pagato da nessuno! Eppoi tu, prima delle elezioni, quando ti avevo manifestato le mie paure di ritorsioni per le mie simpatie per l’Ulivo (essendo Pinelli dichiaratamente di destra. Poi amico della Melandri, diceva lui…), mi avevi rassicurato tassativamente. Mi hai fatto una promessa solenne: “Il tuo contratto e il tuo lavoro non te li tocca nessuno. Soprattutto se vinciamo le elezioni.”

 

L’8 ottobre, dopo tanto penare, alle 10,15 mi riceve di nuovo Tantillo. (Forse sollecitato per l’ennesima volta, e  in maniera perentoria, da Vincenzo Vita ). E’ un incontro penoso: lui non mi guarda mai in faccia. Io gli rispiego la vicenda di Voglino e gli dico anche che sono pronto a dimenticare. Sembra infastidito, ma mi dice:

Lasciami i progetti e dammi quattro- cinque giorni di tempo. Naturalmente, non posso farti un contratto io, lo deve richiedere un capostruttura. Fammi parlare con Gazzara, appena avrò letto i progetti, e poi ti chiamerà lui per il contratto.”

Da quel momento in poi, mai più visto né sentito. Ho scritto e telefonato anche al Dott. Gazzara, ma non si è mai degnato di venire all’apparecchio. Eppure, i miei progetti sono quanto di meglio sia passato in Rai negli ultimi vent’anni!

Evidentemente è me che non vogliono tra le scatole!

 Esiste un carteggio mio e del mio avvocato, con tutti i pezzi grossi della Rai. Soprattutto con Tantillo, ma lui non ha mai avuto il buongusto né l’educazione per rispondere. Mai! Richiamo Manconi (Che ci posso fare io?) . Mi rivolgo a Oliviero Diliberto, allora capogruppo alla Camera per Rifondazione Comunista e mio conterraneo. Mi riceve subito e, saputo che sono stato cacciato da Pinelli, al grido di:

“Sei di P.R.C. quindi qui non c’è posto per te!”,

parla subito col Presidente della Rai Siciliano. Ma non succede niente. Diliberto mi dirà in seguito di averci parlato ancora, ma di non aver ricevuto soddisfazione. Poi mi scarica anche lui. Già: deve fare da compare al noto genio del faccendierato sardo Nichi Grauso! Quello del caso Lombardini e del partito azienda isolano, insomma.

 

Arriva Natale. Bel Natale: oltre trecento milioni di debiti, lo sfratto in via di esecuzione, nessuno che può più farmi prestiti, solo come un cane e con la dispensa vuota. Unica consolazione, l'appoggio morale dell’avvocato Quaglietta che mi chiama quasi tutti i giorni e mi rassicura:

“ Vedrai che la spuntiamo, a costo di portarli in tribunale!”

Una mia zia, pensionata e sola,  mi manda un vaglia da un milione: almeno mangio.

Il 15 gennaio 1997, sento un mio vecchio conoscente, Tonino Nieddu, che è diventato l’assistente di Liliana Cavani (allora Consigliere di Amministrazione) e mi informa che è nata la Struttura Cinema e Fiction. Mi prende un appuntamento col vicedirettore, Stefano Munafò.  Munafò mi conosce da anni, almeno di fama, e mi chiede se ho progetti. Visto che la struttura è vergine e non hanno nulla (materiali) , lui mi dà appuntamento per le ore 10,30 di lunedì 20 gennaio. Arrivo con tre progetti: una sit-com e due serie di telefilm (ovviamente, originali, universali, e di grande impatto).

Munafò li legge e, dopo aver parlato col suo capo, Silva,  incarica la dottoressa Anna Maria Denza, capostruttura, di seguire i miei lavori. La signora Denza mi chiama e ci incontriamo nel suo ufficio il 31 gennaio 1997. La signora è una persona serissima e molto professionale. Mi conosceva e mi apprezzava per avermi visto in TV e sceglie uno dei tre progetti: la sit-com: “ DA GAVINO AL CINGHIALE MARINO” Storie buffe dall’unico albergo al mondo dove il direttore ruba gli asciugamani ai clienti. Argomenta e motiva la sua scelta così: “Sono molto buoni anche gli altri due progetti, ma io partirei con questo, perché l’ho vista lavorare e so già che può venir fuori un’operina veramente esilarante e di grande successo di critica e di pubblico. Se me lo avesse portato un altro, questo progetto, lo avrei forse bocciato. Ma interpretato da lei sarà sicuramente una bomba. Inoltre, costerà pochissimo. Parlo subito coi miei superiori e spero proprio di riuscire ad averla presto con noi.”

Alle ore 12 del 4 febbraio, mi chiama la signora Denza e mi annuncia che ha già fatto partire la richiesta di contratto per tredici soggetti e una sceneggiatura, oltre alla descrizione della location e dei personaggi. Tocco il cielo con un dito e mi metto subito al lavoro.

Il 28 febbraio firmo i contratti e constato che per la sceneggiatura (un lavoraccio) mi offrono soltanto SETTE milioni lordi: generalmente, in RAI, una sceneggiatura viene pagata oltre i cento milioni! E questa mia fa ridere, e tanto, mica è una soap opera… Dovrebbero pagarla almeno il doppio di una sceneggiatura normale. Da che mondo è mondo, far ridere è la cosa più difficile. Però mi accontento e intanto mi sento spesso con la signora Denza. Grande delusione, quando mi annuncia la sua prossima andata in pensione. Si augura (e mi auguro) di poter portare a casa il contratto definitivo per la messa in onda, prima che lasci il posto. No sa da chi verrà sostituita, ma non si fida tanto dei “soliti giochetti”, né del suo successore… Che profetessa! Ai primi di luglio 1997, la onesta, seria, professionale, Denza, viene sostituita da un caro amico di Silva ( Direttore della struttura): un certo Gianandrea Pecorelli. Costui mi prende sfacciatamente in giro. Lo contatto immediatamente, ma non si degna nemmeno di parlare con me. La sua segretaria ( ma dove le trovano?)  PRIMA, mi assicura di essersi accertata che la Denza gli ha lasciato (al Pecorelli) i miei lavori ben in evidenza sul tavolo, al passaggio delle consegne; DOPO pochi giorni, invece, mi dice che non riesce a trovare la sit-com e che però si darà da fare per trovarla al più presto… Io le faccio notare la discrepanza, ma lei ribatte che ho capito male io. La invito a percorrere i quattro metri che la separano dall’ufficio (nuovo) della mia amica Cristina Scalese, alla quale ho lasciato una copia in più del lavoro: interessato ad un suo spassionato parere. Ma questa segretaria mi prende per matto: andare in un altro ufficio?! Ma non se ne parla nemmeno: non è di sua competenza!

Io divento matto:  “Ma noi siamo fermi – dico. – Perché non ci date la possibilità di lavorare tutta l’estate alle altre sceneggiature? “

Nulla da fare. Decido di scavalcarla e, qualche giorno dopo, riparlo con Munafò.  Scopro da altre fonti che, da oltre un mese, l’amico Pecorelli ha il mio materiale sul tavolo e richiamo, esacerbato, Munafò. Lui non c’è, ma la sua cortese segretaria mi conferma che tutto il mio materiale non si è mai mosso dalla scrivania del Pecorelli. Evidentemente lei parla col suo capo, che chiama Pecorelli, il quale udite, udite, mi telefona PERSONALMENTE  un mercoledì per dirmi:  “Ho appena (sic!) ricevuto il suo materiale.

Mi dia soltanto il tempo per leggerlo (N.B. Ci vuole meno di un’ora: tempo cronometrato da me) e, lunedì o martedì prossimo, le farò sapere.”

 

Passano i lunedì e i martedì: silenzio. No. Non mi ha chiamato il dottor Gianandvea Pecovelli… L’avrei riconosciuto dalla voce fessa e dal birignao degno del peggior Christian De Sica. Il 6 agosto lo richiamo io: è in riunione…

Richiamo il 7: è dal capo… lascio un altro messaggio. Niente, nessuna risposta. Il 16 settembre mi rifaccio vivo. Lui non c’è e la sua segretaria si secca: “Abbia un po’ di pazienza, ha molto da fare!” Le ribadisco che sono sette anni che ho pazienza. Il 22 settembre, cerco di riparlare con Munafò. Lui è impegnato, ma la sua segretaria, molto carinamente, si impegna a riparlare lei stessa con Pecorelli.  E qui viene il bello! La segretaria di Munafò mi richiama dopo pochi minuti… per dirmi: “Mi dicono, dall’ufficio di Pecorelli,  che le hanno già risposto negativamente, circa il suo lavoro DA GAVINO AL CINGHIALE MARINO.”  - A me?! E quando? – faccio io. Ovviamente, crede alla mia buona fede e riparte alla carica. Miracolo! Pecorelli in persona mi chiama, qualche decina di minuti più tardi, e con una faccia di tolla come poche mi dice, pressappoco: “Come le ho detto già ai primi di agosto (?! Ma se, allora, mi faceva dire di non aver nemmeno trovato il mio materiale!), il suo lavovo non ci intevessa. Eppoi, il nostvo consulente, il dottov Bvuno Voglino, lo ha bocciato.”

Chiuso il discorso. Voglino?! (ancora e sempre LUI!) Ma che c’entra costui con la fiction? Ma non era alla radio? Non era già andato in pensione (come alcune voci riportavano)? Chiamo l’avv. Quaglietta, gli racconto della falsità di Pecorelli e della novità-Voglino. Lui, immediatamente, scrive alla Rai chiedendo, secondo i  termini della legge sulla trasparenza…

A tutt’oggi, nemmeno l’ombra di una risposta!

 

Sarebbe carino svolgere qualche indagine sulle collaborazioni o consulenze, spesso miliardarie, che dirigenti ed ex-dirigenti continuano a prestare all’azienda. Per esempio: Scaffa, B.Giordani per Raiuno, Voglino per la struttura fiction, ecc. La continua presenza di detti personaggi nelle varie strutture (vedi Voglino nel mio caso), non permette l’accesso di professionisti scomodi   (come il sottoscritto e tanti altri colleghi di valore, che interrompono il flusso di mazzette) e, di conseguenza, favorisce l’accesso e il dilagare di personaggi comodi.   Non importa che siano professionali, talentuosi, o semplicemente capaci: NO! L’importante è che nessuno disturbi il manovratore (di mazzette) e che i diritti Siae siano salomonicamente spartiti. Tra loro. E intanto la TV ha perso, dal 1996, altri milioni di telespettatori! Si continua a parlare di “morte del varietà” anziché di morte, almeno cerebrale, degli autori profumatamente pagati e onnipresenti! E io ho un altro sfratto per morosità e mi hanno staccato due volte luce e telefono.

Ora, è facile evincere da tutto ciò anche un altro danno gravissimo da me subìto, forse non agli occhi dei profani: ma dopo che io – incaricato da alti dirigenti della Rai – convoco colleghi – conoscenti o sconosciuti personalmente, per lavorare con me ad un programma “X” (UNOPOMERIGGIO, LUNA RIDENS, BIRIMBO, GELATO AL LIMONE, DA GAVINO AL CINGHIALE MARINO…), programma COMMISSIONATOMI dall’Azienda e questo programma, dopo alcuni mesi salta (o salto io o salto io e saltano loro) … Quale nomea mi sono fatto? Come minimo del fanfarone o del menagramo (che in quest’ambiente equivale, di per sé, alla morte civile! Mia Martini insegna…) Chi deve pagare per tutto questo? Chi paga la mia caduta d’Immagine? Chi per i miei libri fermi dagli Editori: perché io non torno in TV? Chi per le tournée che saltano e per le grosse Aziende che mi vorrebbero come testimonial, ma aspettano che rinverdisca la mia popolarità televisiva? Chi mi ripaga la mia salute, ridotta a lumicino? Chi paga tutti questi danni? Mi rispondo da solo, come un personaggio di Sordi: “Stogazzo!”

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                        XV

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Ed eccomi qua

 

 

Aspettammo e continuammo ad aspettare. Tutti quanti. Lo strizzacervelli non sapeva che l’attesa è una di quelle cose che fa impazzire la gente?

C.Bukowski (Pulp)

 

 

 

 

 

 

Ed eccomi qua. Siamo a settembre del 1999. Da quando ho scritto sopra, sono passati altri tre anni. Cos’è successo?

Intanto ho cambiato casa. Per forza. Mi si è gonfiata la panza come un airbag. Per forza. Ho chiesto altri prestiti. Per forza. Mia zia di 70 anni si è ipotecata la casa quando non sapevo dove sbattere la testa. Ora siamo in due a non sapere dove sbattere la testa. Anzi, siamo in tre e presto in quattro…

Già, tre anni fa ho conosciuto Lena. Il 27 giugno ha compiuto 27 anni. E’ una di quelle ragazze che si vedono in qualche fortunato spot televisivo. Alta, bionda, carina. E’ nata a Mosca da un prestigioso ingegnere nucleare e da una prima ballerina del Bolshoji. Ha studiato per quindici anni nel prestigioso teatro, dove lavorano anche suo zio materno e due suoi cugini, poi è stata selezionata tra migliaia di belle ragazze per far parte del balletto del Circo Nazionale Città di Mosca. Ha girato il mondo in tournée ed è approdata in Italia circa sei anni fa. Innamorata dell’Italia e di un italiano, si è sposata il tipo ed ha lasciato il circo. Il matrimonio però è durato pochi mesi. L’ho conosciuta dopo aver girato la “pilota” di Birimbo e l’ho corteggiata poco e male, ma lei, stufa dell’insipienza dei bellimbusti che le ronzavano attorno, si è rovinata con le sue mani e a Natale di tre anni fa è venuta a vivere con me. Subito innamoratissima e gelosa come una cagna dei propri cuccioli. Con la caduta del PCUS suo padre è andato in rovina e si sta ammazzando con pessima vodka. Tutta la Russia, ormai in mano alla mafia, si sta ammazzando nei modi più svariati. La madre l’ha raggiunta a Roma tre anni fa e da qualche mese vive con un vecchio saxofonista gentile. Lena mi sopporta e mi dà forza. Tanta forza. Abbastanza addirittura da farla rimanere incinta. Che ne è stato dei miei rapporti con la Rai?

Eheheheh…

 

Ho finalmente fatto muovere la Guardia di Finanza.

I militi sono andati e hanno rivoltato la Rai come un calzino. Poi, un brutto uomo cattivo ha stoppato il PM incaricato delle indagini e tutto è stato insabbiato. Sappiamo per certo, il mio avvocato ed io, che i finanzieri hanno trovato le prove inconfutabili di tante di quelle porcherie (addirittura superiori e più tozze rispetto a quelle denunciate da me), che erano pronti i pullman granturismo per traghettare i lestofanti in galera. Ma, come ho detto, il segretario del Consiglio di Amministrazione della Rai pare che abbia stretti legami parentali col capo dei PM romani. Pare.

Comunque, ci sarà un giudice a Berlino?

 

            Anche Edmondo Ricci ha denunciato all’allora Capo del Governo, Prodi, alla Corte dei Conti, al’Authority, alla Procura della Repubblica, ecc. le malefatte documentate di Silva, capo della struttura Cinemafiction, e del suo vice Pecorelli. Gianandvea Pecovelli.

Questo Silva è uno che fa il produttore. Avuta la nomina alla Rai, in palese conflitto d’interessi, non solo non si è dimesso dalle cariche e/o ha ceduto la sua casa di produzione, nooo! si è tenuto la sua produzione, ne ha aperta anche una a nome della moglie e ne ha fatto aprire una ad un suo sottoposto: Gianandrea Pecorelli, proprio lui! E questo una settimana prima di nominare Gianandrea a capo della FictionItalia… Roba da Pinocchio e Lucignolo! Da il Gatto e la volpe. Da Burlesquoni e Craxi. Da Dell’Utri e Previti! Da Ciop & Ciop del malaffare.

           

Oltre un anno fa, per tenermi buono, mi hanno ventilato un contratto serio. Hanno acquistato un altro mio progetto (pagato il dieci per cento del normale), per una fiction in otto puntate. Mi hanno commissionato otto soggetti, la bibbia dei personaggi, e una sceneggiatura. Bene. Nessuno ha letto un cazzo, come al solito e nessuno ha dato il via alle altre sette sceneggiature, né tantomeno alla messa in opera del progetto.

 

            E’ un passo avanti, direte voi: prima i progetti te li ciulavano e basta. Ora, seppure a presa per il culo, te ne hanno comprato tre in tre anni…

 

Forse avete ragione. Ma intanto mi hanno scatenato la G.di F. contro. Non fa male ripeterlo.

Ho poi scoperto che per la sceneggiatura di “Gavino” l’offerta dei miserrimi sette milioni lordi fu ordine del responsabile dottor Milano, figlio di quell’Emanuele Milano: già potentissimo dissipatore in Rai e passato a sperperare i soldi di Cecchi Gori a TMC, quindi alla tv della Cei… con i fratelli Avati. Ahiahiahi!

 

 

E qui possiamo tornare al mio amico Edmondo Ricci, serio produttore e galantuomo che non lavorava per la Rai da diciotto anni!

Perdonate questo finale un po’ notarile, ma vorrei che vi indignaste ancora un pochino, se possibile.

 

Il 2 dicembre 1997, Ricci ha mandato il seguente fax-raccomandata a Enzo Siciliano, Franco Iseppi, Romano Prodi, Veltroni, Maccanico, Storace, Paissan, Del Turco, D’Alema, Melandri, Bellucci, Cheli, Procura Regionale presso la Corte dei Conti, Sezione controllo Enti della Corte dei Conti.

 

Oggetto: Richiesta formale di accertamenti in RAI

 

Con la presente intendo prospettare a chi di competenza fatti e documenti di cui sono venuto a conoscenza in maniera diretta, riguardanti la RAI ed in particolare la struttura Cinema-Fiction.

 Gli argomenti che vengono trattati riguardano la famosa serie televisiva: “ LA PIOVRA” e la particolare situazione dei vertici della struttura Cinema-Fiction della RAI.

Sub 1: La Piovra nasce da un soggetto di Nicola BADALUCCO, che presenta in RAI sotto il titolo: “UN AGENTE PIENO DI FANTASIA”. Il titolo viene modificato da Lio BEGHIN, allora responsabile della fiction della 1° Rete della Rai-TV, che suggerì: “LA PIOVRA”. Il programma era stato ideato per divenire film cinematografico e televisivo e non una serie. Come società di produzione ( anche per la realizzazione del film televisivo) la Prima Rete Rai aveva scelto la ESCORT srl di Mario Montanari e Bruno Turchetto. Come regista era stato chiamato Damiano Damiani e come sceneggiatore Ennio De Concini. In tale fase, Sergio Silva ( attuale capo della megastruttura Cinema-Fiction N.d.A.) era uno dei tanti funzionari che interveniva nelle trattative. La Rai era unica proprietaria dei diritti connessi e collegati alla PIOVRA.

LA PIOVRA 2 nasce come conseguenza del notevole successo di critica e di pubblico della prima serie televisiva. Lo sceneggiatore continua ad essere lo stesso, come regista viene chiamato Florestano Vancini, atteso che Damiani riteneva un errore far risorgere il Commissario Cattani al solo fine di realizzarne una serie. La produzione viene confermata alla Escort srl. La Rai chiaramente continua ad essere proprietaria esclusiva di tutti i diritti ( di Autore e di utilizzazione economica).

LA PIOVRA 3 e 4 vengono realizzate ancora sull’onda del successo delle precedenti serie. Come sceneggiatori vengono chiamati i sigg.ri Petraglia e Rulli, come regista viene chiamato Luigi Perelli. La produzione viene affidata ancora una volta alla Escort srl. Tutti costoro cominciano a intrattenere rapporti col solo Sergio Silva, Capostruttura della Fiction per la 1° Rete Rai-TV. La Rai è proprietaria di tutti i diritti.

LA PIOVRA 5 è decisamente caratterizzata dal fatto che Sergio Silva, dimessosi dalla Rai, va a coprire la carica di Direttore Generale della R.C.S. srl, settore Cinema e Televisione. La Rai decide di cambiare società di produzione e realizzazione e stipula con la R.C.S. srl.

Inspiegabilmente, la R.C.S. srl. Dà in sub-appalto la realizzazione della nuova serie alla VOYAGER srl. ( i soci sono gli stessi della ESCORT srl: lasciata fallire a seguito dell’intervento della Guardia di Finanza che, sembra, abbia riscontrato £.10.000.000.000 ( dieci miliardi) di fatture false e “nero”).

In tal modo, la Rai non solo impegna una somma di danaro sicuramente superiore al dovuto ( se avesse dato in appalto la produzione-realizzazione alla Voyager srl, quanto meno avrebbe risparmiato quanto richiesto dalla R.C.S. srl) ma in più perde la titolarità dei diritti per la distribuzione in tutto il mondo !

Le trattative vengono condotte per la R.C.S. srl personalmente dal Direttore Generale Sergio Silva e per la Rai dai dirigenti allora in carica ( sequestrando il contratto si potranno conoscere i nomi di detti dirigenti della Rai).

Tali fatti possono essere confermati dallo stesso sig. Bruno Turchetto della Voyager srl, nonché esaminando i documenti relativi all’accertamento eseguito dalla Corte dei Conti nel 1994, come da legge 250/58 e D.P.R. del 20-07-’61, sulla Rai. Gli sceneggiatori sono ancora Petraglia e Rulli e il regista è Perelli.

LA PIOVRA 6 conferma la nuova tendenza che vuole sempre meno della Rai tale serial. La R.C.S. srl inspiegabilmente produce in esclusiva la nuova serie e si dichiara titolare di tutti i diritti, anche quelli di utilizzazione economica, chiaramente; alla Rai viene riconosciuto il solo diritto di “preacquirente” dell’antenna, c.d. diritti di antenna Italia.

La Corte dei Conti specifica in merito che l’acquisto di antenna italia:

”… non supportato dalla specificazione del costo globale di produzione, ha comportato un corrispettivo di £ 11.350.000.000…” Precisa ancora che:

”…il contratto TV1/AP/CP/3157 del 06-08-1992 conferma la titolarità esclusiva della R.C.S. sui diritti produttivi di ulteriori serie de LA PIOVRA con possibilità, in caso di mancata accettazione della Rai ( titolare di un diritto “primo rifiuto”), di realizzare ulteriori edizioni con altri partners, compresi i networks privati…” Conclude affermando che:”… per quanto riguarda LA PIOVRA il collegio ha rilevato essersi determinata – di fatto e senza nessun palese negozio di trasferimento – una situazione di progressiva dismissione da parte di Raiuno della paternità e della proprietà relative al complesso progetto produttivo, con conseguente trasformazione della società RCS in effettiva titolare dei diritti sulla produzione…”.

LA PIOVRA 7 è a sua volta caratterizzata dalle scelte di Silva. Questi, infatti, decide di uscire dalla RCS srl e di costituire altra società di capitali denominata “Sergio Silva TV Production srl”, con la quale produce la nuova serie!!! Non è dato conoscere se sia intervenuto un contratto di cessione dei diritti relativi alla PIOVRA tra la RCS srl e la Sergio Silva TV Production srl. Di fatto, la RAI stipula un contratto di produzione e realizzazione con la nuova società, pagando in seguito anche la cessione dei diritti d’autore e di utilizzazione economica. In particolare, la nuova serie viene realizzata dalla voyager srl ( sub-appalto?), stessi sceneggiatori e stesso regista della serie precedente. Le due società lavorano con l’accordo di dividersi al 50% le somme che rimangono tra gli importi richiesti alla Rai e le spese di produzione. Di fatto, alle due società resterà oltre £ 1.000.000.000 (un miliardo) a testa.

LA PIOVRA 8 –9 – e 10   sono caratterizzate dall’incarico che Silva ricopre in Rai: nuovamente quale Direttore della struttura Cinema-Fiction. Premesso che per lo Statuto della RAI il privato che svolga attività del tutto analoga a quella che viene a svolgere in Rai deve preventivamente abbandonare la società di produzione ( dismettere ogni carica ricoperta e cedere le quote di cui era titolare) e che tra la nomina e l’abbandono della società devono passare almeno sei mesi, è bene evidenziare che Silva tutto ciò non ha effettuato, né in Rai nessun dirigente o funzionario ha rilevato tale anomalia (?!). La prova di ciò è riscontrabile nei fatti stessi. Infatti, la RAI aveva già stipulato un contratto di attivazione e produzione-realizzazione con la “Sergio Silva TV Production srl” ( si era già in fase di produzione per l’ottava serie ed in particolare detta società aveva già contattato la Voyager srl per la realizzazione), mentre Silva veniva nominato Direttore della struttura Cinema-Fiction della Rai. Inspiegabilmente, la Sergio Silva TV Production srl “delega” la Tangram Film srl a produrre e realizzare la nuova serie. La scelta potrebbe non essere casuale: atteso che nel 1995 Roberto Levi era Vicepresidente della Associazione Produttori Televisivi, il cui Presidente era appunto Sergio Silva. Il problema è che non si comprende il termine utilizzato da più persone contattate di “delega”, atteso che sembrerebbe che la Rai ( Sergio Silva) abbia continuato a stipulare il contratto di produzione-realizzazione con la “Sergio Silva TV Production srl”, mentre quest’ultima, di fatto, sub-appaltava la realizzazione dell’Opera alla Tangram Film srl. Da questo momento in poi, Silva (RAI), stabilisce quante Piovre produrre, tratta il prezzo delle produzioni con la “Sergio Silva TV Production srl” (che “delega” alla Tangram Film la realizzazione?), nonché stabilisce a quale prezzo acquistare tutti i diritti della serie (il cui titolare è Silva stesso o la Sergio Silva TV Production srl?). Il regista diventa Giacomo Battiato, gli sceneggiatori restano invariati.

 

Sub 2: I vertici della Struttura Cinema-Fiction della Rai hanno vissuto in questi ultimi anni continui avvicendamenti, che si ritiene opportuno ricordare. Appena nominato Direttore di struttura, Sergio Silva ha fatto nominare Enzo Tarquini, suo amico di vecchia data, quale Capo Struttura. Andato in pensione, dopo qualche mese, Tarquini ha lasciato il posto a tale Francesco Tarquini (non parente) che ha operato come facente funzioni fino al giugno 1997, allorquando è stato nominato Capo Struttura per l’Italia Gianandrea Pecorelli. La scelta di Silva di nominare Pecorelli non è casuale, atteso che i due avevano già “collaborato” nella RCS srl, allorquando Silva ricopriva la carica di Direttore Generale, mentre Pecorelli era un suo fedele esecutore di incarichi. Oggi, di fatto, la struttura si presenta con Silva quale Direttore di Struttura e Pecorelli quale Direttore di Struttura per l’Italia, che ancora oggi sembra comportarsi in Rai come mero esecutore di incarichi di Silva.

Qualche perplessità, dunque, la desta quest’ultimo, come accennato: uomo fidato di Silva già ai tempi della RCS srl. In epoca recente, i due citati, apparentemente si separano. Infatti, mentre Silva riceve la nomina a Direttore di Struttura in Rai, guarda caso, Gianandrea Pecorelli si affretta a costituire nell’aprile del 1996 una società di capitali, la SIDECAR FILM E TV srl, insieme a tale sig. Maurizio Tini (A.U.), con la quale avvia i contatti per produzioni televisive con la Rai per una serie miliardaria.

Di fatto, nell’aprile 1997 Pecorelli stipula con la Rai (Silva) un c.d. (contratto di attivazione) in relazione alla possibile produzione di una serie televisiva intitolata “Ritorna Giamburrasca”. A fronte della stipula del contratto, la Sidecar srl riceve dalla Rai la somma di £ 445.000.000, ma il contratto prevede anche la “clausola di gradimento” delle 12 sceneggiature da 52 minuti ciascuna, richieste dalla RAI per la stipula dell’eventuale contratto di produzione. Tali sceneggiature vengono però bocciate dal Vice-Direttore di struttura Stefano Munafò e dall’allora Capo Struttura Tarquini. Nel frattempo, Pecorelli viene contattato ( da Silva?) per la eventuale nomina a Capo Struttura della Cinema Fiction Italia della Rai. Immediatamente, il 30 maggio 1997, Pecorelli decide di cedere le quote come socio della Sidecar srl a Tini e a tale Giancarlo Aymerich e ne dà formale pubblicazione solo in data 27-06-’97.

Anche in questo caso, senza rispettare il semestre tra la cessazione dell’attività come privato e l’accettazione della carica in RAI; nessuno se ne accorge!!!

Incredibilmente, Pecorelli, appena assunto l’incarico, riprende le 12 sceneggiature bocciate e nell’agosto stipula con la Sidecar il contratto di produzione per un costo complessivo di £ 7.250.000.000  (comprensivo della somma già percepita dalla società quando Pecorelli era socio) contro una produzione in “elettronica a colori”, notoriamente molto più economica della produzione con riprese in pellicola a colori. Tutto ciò avviene con il necessario assenso di Sergio Silva e senza il controllo di altri dirigenti e/o funzionari Rai. Ma ciò che è più grave è che il prezzo pattuito dalla RAI per la realizzazione e la produzione di tale serie televisiva appare oltremodo eccessivo. Infatti, da un esame anche sul luogo dello studio di riprese, dai set, dai mezzi e dal personale impegnato, si evince chiaramente che la serie si sarebbe potuta realizzare ad alti livelli di qualità e professionalità con meno di £ 5.000.000.000. Si consideri che la maggior parte delle scene verranno realizzate all’interno di una classe scolastica ricostruita in un piccolo Studio e che la tecnica di ripresa pattuita è appunto la più economica esistente sul mercato. Come già accennato, invece di una produzione con riprese in pellicola a colori la RAI ha pattuito con la Sidecar Film e TV srl una produzione in “elettronica a colori”. Il dubbio a questo punto è fondato: per caso vi sono alla stipula ovvero sono già stati stipulati altri contratti di produzione ovvero di attivazione tra la RAI e la Sidecar Film e Tv srl? A quale prezzo? E con quali tecniche di produzione?

Da una esperienza personale posso semplicemente dire che in RAI (Silva e Pecorelli) sembra sia stata messa in atto una discriminazione tra produttori, a danno dell’Azienda e dei suoi contribuenti, da una parte, ed a favore di produzioni più amiche dall’altra.

Appare evidente che la cifra sia stata oltremodo gonfiata, atteso che la serie viene realizzata nella maggior parte all’interno di una scuola (il che riduce notevolmente i costi relativi a spostamenti ovvero riprese in esterna, scenografie e altri set) e con una tecnica di produzione che richiede attrezzature e materiali poco costosi. In pratica, la produzione e la realizzazione della serie può essere effettuata ad un prezzo notevolmente inferiore.

 

 

 

In conclusione, ritengo sia necessario intervenire per accertare se effettivamente tali comportamenti prospettino ipotesi di illecito civile e/o penale, ovvero costituiscano ipotesi di danno all’erario dello Stato.

Sicuro che i destinatari interverranno comunque nella maniera più solerte possibile, si rinnova la più piena disponibilità per ulteriori incontri chiarificatori sui fatti e sulle circostanze riportate.

 

 

 

EDMONDO RICCI

 

 

Nessuna risposta. Tranne una laconica letterina, su carta intestata della Camera dei deputati, da parte della Melandri che, il 19 dicembre, diceva:

 

 

 

 

Caro sig. Ricci,

ho ricevuto il suo fax con la Sua segnalazione. Farò di tutto per capire come siano realmente andate le cose in merito alla vicenda di cui Lei mi parla.

 

Cordiali saluti, Giovanna Melandri

 

                                                                                                                     

 

 Il 22 dicembre 1997, Ricci torna alla carica e manda un altro fax-raccomandata a Enzo Siciliano, Presidente della RAI, Franco Iseppi, Direttore Generale della RAI, e alla Sezione Controllo Enti della Corte dei Conti. Dove chiede l’allontanamento di Sergio Silva e Gianandrea Pecorelli: il primo, Direttore della megastruttura Cinema-Fiction, poiché – come risulta dalla Camera di Commercio, permane Amministratore Unico nonché proprietario, insieme alla compagna, della “Sergio Silva TV Prod. Srl”, e si pappa svariati miliardi – tra sé e sé – tra PIOVRE varie, DONNA, e altre produzioni; il secondo, attuale Capo Struttura della Cinema-Fiction Italia, che ha ceduto con una magia le sue quote della SIDECAR FILMS & TV srl ( fondata improvvisamente, alla prima telefonata di incarico da parte del padron Silva), al suo socio e all’amico scenografo Giancarlo Aymerich (un po’ come Silvietto Burlesquoni ha “ceduto” le quote de Il Giornale al fratellino Abele… Scusate, Paolo). Pecorelli ha dismesso incarichi e quote senza aspettare i sei mesi previsti dallo Statuto RAI, prima di assumere l’incarico; mentre Silva non si è nemmeno dimesso! Ma Silva acchiappa un sacco di soldi in più di Pecorelli, che si deve accontentare di “Il ritorno di Giamburrasca” e di “Un giorno fortunato”. Un bel giorno fortunato, per i contribuenti, sarà la futura Pasqua: se Pecorelli, come altri ovini, verrà immolato in qualche barbecue.

La Corte dei Conti e la Guardia di Finanza dicono che andranno a vedere. Anche noi andremo a vedere. E, se non vedremo, magari manderemo anche qualcuno da Bruxelles, a vedere. Stiamo a vedere…

Ovviamente, Ricci ha dimostrato che i quattrocento miliardi annui, il budget della struttura “amministrata” da Silva, se li ciucciavano tranquillamente i due compari e pochi loro amici. E per mettere in cantiere produzioni vergognose e gonfiando le spese come aerostati! Che paese l’Italia!

Silva, dopo un tremendo braccio di ferro durato mesi tra il suo sponsor Veltroni e D’Alema, è stato costretto ad andare ignobilmente a casa (miracolo!). Sì, però se n’è andato con una paccata di miliardi; ha preteso ed avuto fino all’ultima lira di prebende e stipendi che gli sarebbero spettati per tutto il suo mandato. Non solo, non pago di aver portato via alla Rai i diritti de La Piovra (che da qualche anno, con abili trucchetti, sono suoi in tutto il mondo), è prontamente rientrato dalla finestra: ha firmato da poco un contrattone di tredici miliardi per un’altra delle sue geniali produzioni!

Pecorelli è ancora al suo posto. E sapete perché? Perché così almeno nessuno rompe i coglioni a chi continua a rubare miliardi e mazzette, comprando spaventosi FORMAT dalla figlia di Craxi e dai suoi soci o prestanome! E, cambiando struttura, lorsignori continuano a comprare e/o produrre quizzacci tutti uguali: un conduttore/conduttrice ritardato/a, domandine estrapolate da Novellatremila o da qualche sussidiario per le vecchie scuole medie, telefono in diretta. La cosa ridicola è che questi si chiamano “programmi traino”, nel senso che dovrebbero portare ascolto ai TG. Invece fanno sempre meno della metà dell’audience dei telegiornali che seguono! La cosa tragica è che il pubblico di queste cacate è scarso, anche numericamente. E’ identico ai conduttori: stesso livello culturale, identico senso dell’umorismo (zero), equipollente nomenclatura (otto parole), sintassi e congiuntivi latitanti da entrambe le cornette. Pubblico e conduttori scemi e intronati come polpi sbattuti ripetutamente sul bancone di marmo.

 

 

Driiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiiin!

-         Pronto. Chi sei?

-         Eh? Prondo?

-         Sì, ah-ah-ah! Ciao. Da dove chiami?

-         Prondo, prondo?!

-         Noi ti sentiamo benissimo. Chi sei e da dove chiami?

-         Ciao. Comblimendi per la trasmissiona. Sei bellissima (bravissimo, simpaticissimo, eccetera. E i minuti inutili continuano a passare. Da spararsi. Ma poi: si sente chiaramente una voce tremula da vecchia novantenne, come cazzo ti permetti di darle del tu?)

-         Grazie, cara. Ah-ah-ah-ah! Il mio pubblico mi ama. (Che tradotto, se il conduttore è di genere maschile, equivale a: mamma hai visto come sono bravo? Vicini di casa, parenti stronzi, Annalisa che non me l’hai voluta dare nemmeno a morire, avete visto che ce l’ho fatta? Se è di genere femminile invece equivale a: troppi ne ho dovuti succhiare. Se avessi fuori tutti quelli che ho avuto dentro sembrerei un riccio,  però adesso guadagno un sacco di soldi e sono sempre sulle pagine di Troielladuemila, Nip, eccetera.) Come ti chiami?

-         Un aiutino. Me lo dai un aiutinooo?

-         Da dove chiami?

-         Ti saluta anche nonna Elvira che ti guarda sembre pure che non ci vede tando bene. Di cui, me lo puoi dare un aiutino?

 

Oh! Il pubblico di questi sciamannati non sa nemmeno come si chiama e da dove telefona! Dài! E al posto di questi strapagati conduttori dello zufolo potrebbero starci dei normalissimi centralinisti. “Prontochisseidadovechiami?” Tre miliardi l’anno… Che gran paese l’Italia!

Per non parlare dello stile Marzullo che ha infestato tutti i programmi. Qualunque zoccoletta,  qualsiasi miracolato con la licenza elementare comprata, davanti alle telecamere si sente Giorgio Bocca. Tutti pretendono di intervistare tutti. Ed ecco la stura alle domandine sciape e piene di muffa.

Ma fate domande interessanti, cazzo! Sai quanto ascolto in più. Immaginate una di queste tipiche interviste scarse che fanno a Domenica in per esempio, dove, anziché chiedere alla smandrappata showgirl di turno “Come sarà il tuo prossimo show?” il conduttore o la conduttrice domanda:

“Su quanti divani hai dovuto saltellare per avere il tuo primo contratto? Ma tu preferisci stare sopra o sotto? Quando un dirigente ti invita a cena preferisci succhiarglielo prima o dopo mangiato? Nell’amatriciana  metti l’aglio o la cipolla? Quando vai ad un appuntamento di lavoro indossi le mutandine?”

Ma vuoi mettere?!

 

 

 

 

 

 

 

 

N.B.

Sia chiaro, per chi non lo avesse capito: non ho mai voluto né avuto tessere di partito. Niente nomine, né candidature (pure offertemi), né prebende. Ho sempre votato a sinistra, perché la sinistra seria aveva gli stessi miei ideali di uguaglianza, di solidarietà, di progresso civile, di giustizia e di educazione. Inoltre, aveva uomini di specchiata onestà, di capacità e di coraggio fuori dal comune: Enrico Berlinguer su tutti. Ho votato e fatto votare per Pannella, in occasione delle battaglie di civiltà per il divorzio e l’aborto. Sono pronto a votare per la liberalizzazione controllata della droga, anche domani, per tagliare le unghie ai mafiosi del ramo. Dal 1995 ho votato e fatto votare Prodi: è l’unico, oggi, che mi garantisce serietà e competenza. L’unica figura politica, dopo i regali dei diessini a Burlesquoni & c., che mi fa sperare che la mafia non avrà gioco facile, si chiami P2, Forza Italia, CCD, o come cazzo vorrà. E’ l’unico che credo capace di portare l’Italia ad un livello di educazione civica degno di una Nazione tra le prime cinque al mondo. Ho votato Prodi e Di Pietro e continuerò a votarli e a farli votare, anche se non hanno mai risposto ai miei fax ed alle mie richieste d’aiuto per avere quella giustizia che credo di meritare. Prosit.

 

(qui dovrò mettere un aggiornamento. Aspettiamo gli sviluppi di questi giorni)