POERESIE

di Carlo Squillante

 

Compatta antologia di verseggiamenti più o meno pretenziosi raccolti da libelli vari dell’autore  (“Profeta in patria”, “Umanipolazioni”, “Il Bibbio, ovvero”), da riviste di varia umanità  e da siti web cortesemente ospitanti. Trattasi non solo di composizioni sedicenti tradizionali, ma anche di “rasperick”, che sono una versione nostrana dei “limerick” - le celebri poesiole nonsense di Edward Lear - ma più graffiante, perché è tale la raspa a paragone della lima.

 

 

 

Se, alla fin, non hai goduto

del mio scrivere scalcagno,

pensa che pure uno sputo

muove l'acqua dello stagno.

 

 

Non solo versi o prose ritmate:

vi porgo le mie idee classificate,

le mie paturnie, le mie sceneggiate

e tante – troppe - immagini stipate

fra verbi, punti, avverbi e congiunzioni.

Vi somministro torride emozioni

o di coglionamenti ahivoi vi impiastro!

Insomma, sto sfogliando un libromastro

ch’io solo, non so come, so sfogliare…

Che vi rimane? Salso odor di mare

e pietre che a leccarle san di sole.

Ma via, contenti, son solo parole,

ciance perse nel vento e tanto basta!

Vado, fra un pò mi buttano la pasta.

 

 

T'adagio sopra l'ali dei gabbiani,

ma tu mi sfuggi, cruda: "Poi, domani...."

Ti dedico poesie, novelle e brani.

Vuoi che li legga? Niente: "Poi, domani..."

Ti cullo fra le sete dei divani,

ma tu mi tieni a bada: "Poi, domani..."

Vorrei sfiorare i tuoi bei seni ispani

tu mi rintuzzi con il: "Poi, domani..."

Son disperato, faccio sogni strani

e tu m'ignori con quel: "Poi, domani..."

Vuoi che t'uccida, dunque, che ti sbrani?!

Tu, come niente fosse: "Poi, domani..."

Ma all'improvviso, sogno o sono desto?,

t'abbandoni e comandi: "Facciam presto."

 

 

 

Sesso sovrano semina sussurri

su serici sentieri serpeggianti

scolpisce seni sodi scoppiettanti

sazio si stende su sofà silenti

sale superbo scale scricchiolanti

scovando sogni stinti, segni spenti

scende sconfitto, senza sentimenti

stupito solfeggiando sibilanti

suoni sinuosi, salmi salmodianti

sardonici sonetti saltellanti.

 

 

Oh, bada: chi fa bene per paura

non vale niente ed assai poco dura.

E sappi che il parlar senza pensare

è come lo sparar senza mirare.

Solo il denaro che vien risparmiato,

non una, ma due volte è guadagnato.

Se agisci con saggezza e con pazienza

a spese altrui raccogli conoscenza.

Chi monta dei cavalli tristi e buoni,

ricordi di spronar con gli speroni

Meglio è patir le insidie d'un nemico

piuttosto che l'invidia di un amico.

Non c'è nel mondo cosa al par peggiore

che in membra vecchie pizzicor d'amore.

 

 

Grandi parole, piccoli pensieri,

sedie di paglia scrocchiano i sederi,

parliamo solamente per parlare,

solo il silenzio resta ad ascoltare.

 

 

Con le parole, quando vuoi, ti scopri

ed anche ti nascondi, al tempo stesso.

Con le parole fai l'arrosto e il lesso,

batti la fiacca quanto più t'adopri.

Parole grasse e secche, lievi e grevi,

che danno da campare e danno stenti,

rimbombano nel capo e non le senti,

ti fan digiuno mentre mangi e bevi.

"Alorap" è "parola" all'incontrario:

vivono insieme, l'una dentro l'altra.

Perché la vita è sciocca quanto è scaltra,

mentre va in scena, tira giù il sipario.

 

 

Cala la notte, come le mutande

d'una fringuella facile d'umore,

cala come il solerte squartatore

cala la lama e le budella spande.

La notte cala... ma chi se ne cale

se non i piedipiatti ed i guardiani?!

Cala la notte sopra ignavi umani,

cala occhieggiando per dirute scale.

Mi chiederete perché tutto questo

cianciare senza scopo e contenuto.

Fors'avete ragione, vi saluto

e faccio un passo indietro, un passo mesto.

Volevo solo dire che la notte......

ma vedo che nessuno se ne fotte!

 

 

Il giorno è poco, serve per campare.

La vita esplode quando si fa notte!

Poi, la tenebra sfuma in un sussurro...

Io m'alzo spento e mangio pane e burro.

 

 

Noi vivemmo felici. Io ti permisi

di rammendar calzini il lunedì.

Tu non dicesti nulla quando misi

quella cravatta a righe rosse e gialle.

Non dissi niente quando il generale

volle pescar nella tua scollatura

la sua dentiera e tu non protestasti

quando mangiai cipolle sul comò.

Cospargesti i miei occhiali con la pece

e non osai di profferir parola.

Anche quando fuggisti con Gondrano

non vi fu screzio per il nostro amore.

Eppure il dramma esplose con violenza,

tanto che m'impiccai con una stringa,

quando (ricordi, cruda?!) non volesti

ch'io ti mettessi a mollo nel vetriolo.

 

 

 

 

Gianromolo Sorcagno, patrizio di Peluria,

ama la mortadella, la pàprika e l'anguria,

ama le cameriste castane di capelli,

ama i libri di Busi e i film di Monicelli.

Gianromolo Sorcagno patrizio di Peluria:

è questa la sua vita stremata di lussuria.

 

 

 

 

Amore al tossicchiar d'una ciabatta

senza promesse di frutti proibiti

qualche festività con i canditi

folli avventure per un can che gratta.

Ricordi al sugo di naftalina

serbati in fondo al vecchio portafoglio

vicino al boccheggiar d'un quadrifoglio

ch'ella colse con ansia, una mattina.

Abito della festa, profumato,

capelli lustri a onor della famiglia

ch'offre liquori, pasticcini e figlia...

Non bello, ma distinto e reputato.

Sulla bilancia: qui, la promozione.

Sull'altro piatto tutto da eguagliare:

un nonno maresciallo e, a quanto pare,

un cugino imbattibile a scopone.

Niente debiti dopo il ventisette!

Ecco la campionessa del rammendo!

Io dò... cosa mi date? Bene, prendo.

Un patto fra gorgògli d'anisette.

 

 

 

 

Cosa vuoi che ti dica "Trullallà"?

Oppure vuoi che faccia piroette?

O forse "Dolce dama, mi permette..."?

Ma cosa? Tu, neh, dici.... Mah chissà.

Conosco un navigante che non torna,

un sarto che non cuce più un vestito,

un saltimbanco mìsero e imbolsito,

una puttana vecchia che s'adorna.

Non te ne frega niente? Cosa importa,

perchè quella che conta è la poesia,

le rime sono lampi di magìa,

il verso scorre ed apre la tua porta.

Ora faccio sul serio: cuore? Amore!

Nemico? Amico! T'odio. Simpatia....

Ora ti dico il vero. O la bugìa.

Son cinico o m'inebrio di stupore!

Trovi scolpito sopra la mia soglia:

"La strada dell'eccesso va al palazzo

della saggezza". Sono savio e pazzo,

mi so privare e brucio dalla voglia.

Sto concludendo, pochi versi ancora,

non so, potrei riempirli di parole

o di silenzi rumorosi. Vuole

dirti la penna.... nulla, mia signora.

 

 

Facciamo com'io fussi un cavaliero

e che tu fussi virgine a le rocce,

desnudata de' panni e co' le pocce

e co' le gratie tue sanza mistero,

renserrata et avvinta de catene...

Il monstro! Ecco che sguizza da lo flutto,

che già s'avventa, ma lo infilzo tutto

a la mia spada! E che tu me voi bene.

 

 

Faccio la notte a pezzi, poi la incarto

e la regalo a chi non la conosce,

a chi non vive le pacate angosce

confezionate da un crudele sarto,

che cuce carne e trine, che drappeggia

un broccato prezioso e una scorreggia.

 

Far poco o niente ed aspettar che venga

qualcuno a presentare l’ingiunzione,

dare una rimestata al minestrone,

l’aria distratta, non c’é “ma” che tenga.

Restare alla finestra e fare cenni

a chi cammina ancora a testa alta,

accatastar mattoni senza malta,

tenere come motto: “Vidi e venni”.

Contar le pecorelle e restar sveglio

per disegnare fole sul soffitto,

scrivere tutto ciò che non é scritto,

pensare solo al peggio e non al meglio.

Prendere un libro, non importa quale,

leggere le parole alla rinfusa,

riporlo nel cassetto e, a scena chiusa,

interpretar la comica finale.

 

 

La sogliola limanda a quel paese

e il tordo sordo sardo li stordisce,

quelli che, come te (chi li capisce?!),

non vogliono tornare a fine mese.

Torna, sennò la fregola mi frega

e il cane nel canestro, ahimé, guaisce:

i tipi come te (chi li capisce?!),

pregano pur se fan la messa in piega!

Torna, sennò il notajo nota che manchi,

manco che senza te non si vivesse,

torna perché mi oblige la noblesse,

ritorna pur se rantoli ed arranchi.

Cala la tela sulla mala mela

che sopra il molo d’Imola hai immolato:

diamogli un morso a quel tòrsolo ingrato

e torna, sennò spengo la candela.

I tipi come te, se ci fai caso,

casa non hanno, casomai un casale.

Torna, sennò la torta mi va a male.

Non far torto alla torta, è sadomaso!

Torna! Una terna ghiotta d’occasioni

t’aspetta e pur ti spetta il nonno inane:

tiriamo, orsù, a campar, come campane

che in fosse fesse suonan fessi suoni.

Ma bada, se non torni, il tornio lascio

e lascio il liscio, perché mi sfinisce.

I tipi come te (chi li capisce?!)

mòndano il mondo o il mandano allo sfascio!

 

 

Viaggiare su un calesse senza ruote

comprare casse vuote e scarpe strette,

contare da diciotto a diciassette,

scrivere partiture senza note,

pesare il vento ed asciugar la pioggia,

spingere le montagne verso il mare,

parlar senza parole e ritornare

a riposarsi vuoti, sulla loggia.

 

 

Se non un ciuco avessi, ma un cavallo,

orbene, di Beltade nel castallo

andrei, sordo ai richiami di saggezza.

Direile "V'hamo". Lei, di me assai pezza,

 

concederebbe la sua ambita mano.

Ma, ahimé, non ho un cavallo, ma un ronzàno.

 

 

Non so cosa cantare, bella gente,

perciò canto la penna e il calamaio.

Oggi, la penna è ottica, un bel guaio

se è afflitta da miopia, scrivi un bel niente.

E il calamaro? Resta quel mollusco

che te lo mangi fritto all'osteria

con seppie, gamberetti e compagnia,

ti sgorghi con un litro di lambrusco.

Ci resta la matita, la meschina,

ma attenti, può scoppiare, ci ha la mina.

 

 

Bimbi rognosi, sù, fate la nanna,

strilli e mazzate la balia vi molla,

per stare fermi vi spalma di colla,

se non dormite, son colpi di canna!

Fate la nanna, se vi riesce,

di pepe e ortiche è piena la culla,

non vi muovete, per un nonnulla

vi copre anche di lische di pesce.

Fate la nanna, bimbi rognosi

e cento, mille di questi riposi!

 

 

 

O cacciavite mai nessun t'ha fatto

un'ode, una canzone, una poesiola.

Io, finalmente, sì. Se ti consola,

o cacciavite, non son savio o matto,

ma sono - l'hai capito - un mattacchione

che cerca sempre nuova ispirazione.

 

 

Cogliamo l'occasione di comprare

tre chili di busecche a metà prezzo.

Se non abbiamo i dindi, c'è pur mezzo

d'avere la busecche: sgraffignare

il borsellino al ciula zio Diomede,

quello che dei suoi beni mi fé erede.

Ah, se volete, c'è un'altra occasione:

di fare giusto 'sto mondo birbone.

 

 

 

Le margherite tacciono nei prati,

i rospi stan tranquilli negli stagni

e noi pontifichiamo stralunati

dall'alto delle tazze, dentro ai bagni.

 

 

 

RASPERICK

 

 

In un baule un asino imbriago

cela la sua criniera color spago.

Poiché dei nodi sodi ci ha paura,

la mette a mollo dentro una tintura

per sei secondi e trentasette ore,

poi scopre che l’intruglio è ahimé incolore!

Il ciuco ciucco se ne meraviglia

e torna ad attaccarsi alla bottiglia.

 

Un carrarmato con la meningite

vuole donare molle e viti avite

ad un trattore agricolo, suo amico,

che incontra ogn’anno alla Sagra del Fico.

Ma quando le scartoccia, va a scoprire

che le molle son molli e, manco a dire,

che le viti lo evitan sdegnose.

Dona al trattore i cingoli e altre cose.

 

 

Una casetta di periferia

non vuole più abitare sulla via,

ma in un appartamento proletario,

quattro stanze e servizi, più un solario.

Per rimediare i soldi dell’affitto,

 

a un angolo di strada resta dritto

per tutto il giorno ad elemosinare,

a casa sol ci dorme o va mangiare.

 

 

 

Un modulo stampato per le tasse,

scopre con rabbia che ha le chiappe basse.

Una modula medica avventizia

gli fa notar la cosa, con malizia.

Va a Casablanca il modulo in patema

e tenta di risolvere il problema:

un pò di righe nuove fa stampare

sotto le chiappe, per poterle alzare.

 

 

Un vasetto di senape si incazza,

e va a fare ginnastica in terrazza.

Un pigiama guardone si intromette

e gli sbircia, sbavando, fra le tette.

La senape se ne esce da ‘sta storia,

va con un osso lesso a far baldoria.

Resta a sbirciare il nulla quel pigiama,

bollato da disdoro e malafama.

 

 

 

Un orologio isterico montava

venti lancette: stava esagerando?

No, quella baraonda gli garbava,

errava l’ore, una non l’errando.

Conobbe una clessidra all’osteria,

con la scabbia alla sabbia, che tormenti!

Non vedea l’ora di filare via,

l’isterico orologio, via coi venti.

 

 

Un ragioniere spesso ragionava

d’aver ragione nei ragionamenti,

un lattoniere che latte trincava

giocava al lotto a letto: l’otto e il venti.

Un sedentario saltellava ossesso

se sulla sedia c’era un sedimento.

Se non c’era, sedeva, ma lo stesso

era parecchio triste e un pò scontento.

 

 

La cerbottana è uno strumento antico,

vuoto di dentro, fuori riflessivo.

Non legge, ma conosce un transitivo

od un avverbio o un motto assai pudìco.

La cerbottana non paga le tasse,

passa di bocca in bocca, è chiaccherata.

La cerbottana un giorno l’ho invitata

a bere birra, quattro o cinque casse.

 

 

Un bivio ambiguo, ad una sola via,

stava davanti a un verme solitario,

che sferragliava su una ferrovia

buona sol per andare, a un sol binario.

Per il ritorno, non si sa che dire:

si chieda ad un corsaro o a un caseificio

o a un bonzo o ad un fuochista d’artificio

o a un oste che non sa cosa imbandire.

 

 

Un tamburino suona il contrabbasso

non soltanto da fermo, ma anche a spasso.

Un sarto mette punti e fa puntate

su corse di cavalli assai truccate

da un’estetista che fa cose losche

pure per corse di batraci e mosche.

Un medico accurato fa le spese

pei suoi non più pazienti per le attese.