- UN PAESE IN DECLINO, TRA PARMALAT E BERLUSCONI
di Beppe Grillo
5 Febbraio 2004 4:48 ROMA
Da anni, molti segni indicavano che non conveniva investire in Parmalat.
Se a me che faccio il comico questi segni sembravano così evidenti, come
mai non erano evidenti alle banche internazionali, alle società di
revisione, agli investitori e ai risparmiatori?
Standard & Poor dava un buon rating di Parmalat fino a due settimane
prima del crollo. Negli ultimi sei mesi il valore delle azioni di
Parmalat era raddoppiato. Deutsche Bank aveva comprato il 5 per cento di
Parmalat e l'ha venduto appena prima del crollo. Davvero nessuno sapeva?
Dal 2002 ho raccontato nei miei spettacoli i debiti e i falsi di
Parmalat a più di centomila persone. Sono figlio di un imprenditore. La
mia prima perplessità su Parmalat è sulla strategia industriale più che
su quella finanziaria: mi colpisce la sproporzione tra la povertà del
prodotto di base - il latte - e la megalomania del progetto e delle
spese pubblicitarie di Calisto Tanzi.
Una media azienda regionale che si propone, come diceva Tanzi, di
diventare "la Coca-Cola del latte" mostra di non conoscere né
il prodotto né i mercati. E' come se un fabbricante di meridiane
dicesse: "Veglio diventare la Rolex delle meridiane". Come si
fa a dargli i propri soldi? Le caratteristiche del latte fanno a pugni
con quelle della Coca-Cola, che è una miscela chimica e vegetale
inventata da un farmacista, standardizzata mondialmente, prodotta in
pochi enormi impianti centralizzati; la Coca-Cola ha bassi costi di produzione
e alti costi di vendita perché gran parte della sua attrattiva è fondata
sulla pubblicità e sulle emozioni.
Il latte è il contrario della Coca-Cola: è un prodotto naturale,
deperibile, locale, proviene da migliaia di produttori, ha alti costi di
produzione, bassi costi di vendita, molti concorrenti. I ricavi della
Coca-Cola si basano su ciò che è stato creato intorno alla sua
bottiglia, quelli del latte su ciò che c'è dentro la bottiglia. E questo
è già perfetto, è stato ottimizzato in milioni di anni di evoluzione.
Modificare una cosa perfetta vuol dire peggiorarla, oppure farla
diventare una cosa molto diversa, come il formaggio o lo yogurt.
Con il latte ci sono due strade: cercare di modificarlo il meno
possibile e di conservarne il massimo di proprietà per qualche giorno,
oppure trasformarlo in qualcosa di diverso, che si venda per altri
motivi nutrizionali - come il formaggio o lo yogurt - o emozionali, come
i "novel food" inventati dal marketing. Nel primo caso
riescono meglio le piccole latterie locali, spesso cooperative o
comunali, di cui ci sono buoni esempi in Italia e in Svizzera. Nel
secondo caso, il maggior successo lo hanno poche grandi aziende che
investono molto in ricerca e marketing. In entrambi i casi i margini di
guadagno sono modesti e non giustificano spese enormi di propaganda.
Marlboro o Benetton possono sponsorizzare la Formula uno perché vendono
prodotti con alto valore aggiunto e alto contenuto emozionale, hanno una
distribuzione capillare e prodotti identici in più di duecento nazioni. Ma
un consorzio di latte no, non può sponsorizzare la Formula uno come ha
fatto Parmalat per anni: sono soldi sprecati. Lo stesso vale per le
sponsorizzazioni di decine di squadre sportive nel mondo, tra cui quella
molto costosa del Parma calcio in Italia.
Questo vale anche per il jet privato intercontinentale di Parmalat, che
secondo diversi giornali veniva prestato da Tanzi a vescovi, cardinali e
a un ambasciatore degli Stati Uniti. Insomma c'era una grande
discrepanza tra il tipo di impresa industriale e la stravagante
grandezza delle sue spese. La cosa che più mi colpisce nei reportage di
questi giorni è che si parla solo di soldi, mai di prodotti. Scrivono di
Parmalat come di un'impresa finanziaria e non di un'industria che
fabbrica prodotti tangibili, anzi mangiabili. Questo sottintende una
convinzione molto diffusa, almeno in Italia: qualunque azienda, con
qualunque prodotto, potrebbe generare per sempre grandi profitti purché
sia in mano a finanzieri creativi e spregiudicati.
Nei miei spettacoli ho cominciato prima a parlare dei prodotti, e solo
poi dei miliardi di Parmalat. Nel 2001, girando tra il pubblico in sala,
tenevo in mano un merluzzo e lo immergevo in una tazza di latte
chiedendo alla gente che effetto gli facesse. Mi ci aveva fatto pensare
un "novel food" Parmalat. Un'imponente campagna pubblicitaria
annunciava la "scoperta" del latte con gli omega-3, una
miscela di grassi che prometteva effetti benefici sul sistema
cardiocircolatorio.
Quello che la pubblicità non diceva è che gli omega-3 sono grassi
normalmente estratti da pesci e che quel latte non era stato
"scoperto", ma inventato in laboratorio, fabbricando una
miscela artificiale di latte di mucca e di additivi estranei.
Che fine hanno fatto quel prodotto e quegli investimenti? Gli scandali
alimentari degli ultimi anni hanno fatto perdere a molti europei la
fiducia nei prodotti dell'agrobusiness. Ora gli europei dovrebbero
riacquistare fiducia grazie ai "rigorosi controlli" italiani
della nuova Agenzia alimentare europea, che avrà sede proprio a Parma,
la città di cui Parmalat è il simbolo? E chi è stato il garante di Parma
in Europa? Chi ha imposto Parma come sede dell'Agenzia alimentare
europea? E' stato Silvio Berlusconi, che ha detto all'Europa: "Per
Parma garantisco io!". Voleva come al solito giurare sulla testa
dei suoi figli, ma glielo hanno sconsigliato.
Tanzi e Berlusconi sono oggi i due imprenditori italiani più conosciuti
nel mondo. Mi sembra che non siano famosi come testimonial dell'Italia
di cui ci si può fidare. Sento ripetere da industriali e finanzieri che
Parmalat è un'eccezione criminale e non rappresenta l'Italia; sento dire
che ogni settore ha le sue pecore nere.
Invece è vero il contrario. Tanzi, come Berlusconi, è un buon esempio
della classe dirigente italiana di oggi. Entrambi sono casi patologici
di megalomania. Entrambi posseggono una grande squadra di calcio, yacht
miliardari, un jet privato.
Prima di fondare Forza Italia la dimensione dei debiti di Berlusconi, la
sua dimestichezza nel falsificare i bilanci, la sua ragnatela di società
finanziarie off-shore ricordavano la situazione di Tanzi.
Berlusconi confidò a giornalisti come Biagi e Montanelli che l'unico
modo per salvarsi era conquistare il potere politico. E' qui la
differenza insormontabile tra Tanzi e Berlusconi: Tanzi non avrebbe
potuto fondare "Forza Lat" e salvarsi con la politica come ha
fatto Berlusconi con Forza Italia. Il latte non può essere trasformato
in una proposta politica, la televisione commerciale sì. La mentalità, l'ideologia,
l'apparato, gli uomini e i metodi del business di Berlusconi consistono
da decenni nell'imbrogliare e conquistare milioni di persone con
l'immagine affascinante di una società ideale in cui tutti sono giovani
e belli, annegano in un'alluvione di consumi e sono sempre allegri,
oltre la soglia della stupidità.
La ricetta magica? Più pubblicità, quindi più consumi, più produzione,
più occupazione, più profitti, quindi di nuovo più pubblicità e così via
in una spirale infinita di benessere. Questo - che era già un programma
intrinsecamente politico - è stato trasformato facilmente in un
programma esplicitamente politico. E' bastato estendere leggermente lo
spettro degli obiettivi, trovare un nome adatto a uno pseudopartito
(Forza Italia) e incaricare decine dei migliori funzionari di Publitalia
- la potente agenzia di pubblicità di Fininvest - di trasformarsi in
commissari politici e di perseguire a tutti i costi la conquista del
mercato.
Tanzi non ha la mentalità spettacolare e le strutture di comunicazione
di Berlusconi. Per questo non poteva diventare lui stesso un prodotto
politico. Si limitava a finanziare il partito più forte, prima la
Democrazia cristiana e poi Forza Italia.
Tanzi è austero, schivo, uomo di chiesa e di pochissime parole. Lo stile
era quello di un cardinale. Lo stile di Berlusconi, invece, è quello di
showman di basso livello, da giovane cantava e raccontava barzellette
sulle navi da crociera. Non ha mai smesso, nemmeno al parlamento
europeo, di esibirsi e di cercare di far ridere. Il "core business"
di Berlusconi è Berlusconi stesso. Ciò che ha permesso a Berlusconi di
salvarsi con la politica è il cabaret, sono le sue esperienze giovanili
di showman e un istinto comico di basso livello che ha grande successo
tra la gente meno colta, proprio come le sue televisioni.
Se non fosse un personaggio tragico per l'Italia, Berlusconi sarebbe il
maggior fenomeno del secolo di avanspettacolo comico italiano.
Sia Tanzi che Berlusconi hanno il titolo di Cavaliere del lavoro. In
Italia la stampa usa il termine "il Cavaliere" come sinonimo
di Berlusconi. Oggi per fare chiarezza qualcuno dovrebbe rinunciare a
quel titolo: o Tanzi o Berlusconi oppure i molti Cavalieri onesti che ci
sono in Italia. Finché Berlusconi e Tanzi sono Cavalieri è inevitabile
pensare ai cavalieri dell'Apocalisse. E' gente come loro che sta
portando l'Italia all'Apocalisse economia e civile.
Quasi tutta l'Italia è una grande Parmalat, fondata più sull'apparenza e
sulla falsificazione che non sulla sostanza. Come per Parmalat, pochi si
rendono conto - o confessano di rendersi conto - dell'abisso che c'è tra
l'immagine e la realtà dell'Italia. Per trent'anni l'instabilità
politica e la corruzione hanno rallentato la modernizzazione del paese,
ponendo le basi del suo attuale declino. Ma da dieci anni, da quando la
Fininvest di Berlusconi è diventata il principale attore politico
italiano, questo rallentamento si è trasformato in paralisi.
Quasi tutte le energie delle due parti del sistema politico sono
prosciugate da una parte dal tentativo di estendere il potere e
l'ideologia Fininvest a tutto lo stato e a tutta la società; dall'altra
dal tentativo di contrastare questo assalto egemonico. In Italia molti
settori richiedono da decenni riforme profonde e urgenti: istruzione,
informazione, ricerca, innovazione, tecnologia, pensioni, occupazione,
distribuzione dei redditi, amministrazione della giustizia, energia,
trasporti, gestione del territorio, protezione e risanamento
dell'ambiente, sviluppo sostenibile. Ma da dieci anni tutto ciò passa in
secondo piano, i ritardi italiani si accumulano, diventano drammatici.
Il sistema Fininvest e il sistema Italia per certi versi sono analoghi
al sistema Parmalat: molta apparenza, conti falsi, corruzione, poca
qualità, futuro in declino.
Parmalat aveva conti falsi, ma produce milioni di tonnellate di alimenti
che generano benessere reale per decine di milioni di persone in trenta
paesi. Fininvest non è una multinazionale, come Parmalat, ma una
"ipernazionale". I suoi profitti provengono quasi
esclusivamente dall'Italia e si basano su uno stretto legame con il
sistema della politica italiana e della corruzione. La gran parte dei
suoi guadagni viene dalla pubblicità obbligatoria, un'attività
controversa che crea alla popolazione più danni che benefici. Più che
profitti in un mercato competitivo, si tratta di una rendita senza
rischi, basata sul monopolio, sullo statalismo, sulla produzione di
niente di concreto.
Sono miliardi di euro che, con il sistema della pubblicità obbligatoria,
Fininvest "preleva dalle tasche degli italiani" quando questi
- anche quelli che non guardano le sue televisioni - comprano i molti
prodotti resi più cari dalla pubblicità. Meriti e rischi ne ha pochi,
perché il bombardamento pubblicitario è forzato e non è evitabile dai
cittadini (altro che Casa delle libertà!), perché la televisione
commerciale - privata o statale - è l'unico tipo di televisione in
Italia e perché questa rendita pubblicitaria di fonda su concessioni
statali di frequenze televisive ottenute corrompendo il potere politico
ai tempi di Craxi. Senza queste concessioni statali, in quasi monopolio
e in parte illegali, le rendite e il potere di Fininvest crollerebbero.
Da due anni inoltre la Fininvest è ulteriormente garantita dalle
centinaia di suoi uomini che hanno preso il controllo del governo, del
parlamento e della televisione pubblica e che cercano ora di conquistare
il controllo anche della magistratura e della banca centrale.
La rendita senza rischi di Fininvest è inoltre facilitata dal fatto che
molti dei settanta avvocati che Berlusconi ha fatto eleggere in
parlamento usano nei processi contro Berlusconi e i suoi uomini le leggi
a favore di Berlusconi che loro stessi propongono o approvano come
parlamentari. Questi stessi avvocati - per esempio Pecorella, Taormina o
Ghedini - sono ospiti frequenti nei talk show televisivi, dove
continuano la loro difesa di Berlusconi nel "tribunale"
italiano più importante, quello di milioni di telespettatori ed
elettori, e spesso parlano in tv per ore senza un avversario al loro livello.
Questo tipo di avvocati miliardari, star del foro, della televisione e
del parlamento, rappresentano bene la concentrazione che è avvenuta in
Italia del potere economico, esecutivo, legislativo e informativo nelle
mani di un'unica azienda, la Fininvest.
Grazie a una legge di Berlusconi - valida retroattivamente anche per i
suoi falsi - il falso in bilancio è stato quasi completamente
depenalizzato. Così è restato o è diventato una pratica diffusa non solo
per aziende italiane come Parmalat, Fininvest e altre, ma anche per il
governo. In Italia il vero rapporto tra deficit e pil nel 2003 non è
inferiore al 3 per cento, come dichiarato dal governo, ma sarebbe
superiore al 4 per cento se la contabilità creativa del ministro
Tremonti - un ex commercialista di Berlusconi - non avesse
contabilizzato per il 2003 gli introiti derivanti da enormi condoni
fiscali ed edilizi e da vendite e alienazioni di beni dello stato ce
andrebbero distribuiti si molti anni. Quasi tutti sanno che questa
contabilità è una truffa, ma fanno finta di non vedere. Come fingevano
di non vedere la realtà Parmalat.
Se la situazione reale di Parmalat, di Fininvest e dello stato italiano
non è all'altezza delle apparenze e della propaganda, la situazione
dell'economia e delle società italiane - lo dico con tristezza e rabbia
- non è migliore. Purtroppo la realtà dell'Italia non è all'altezza
dell'immagine che la Ferrari e Armani diffondono nel mondo.
L'Italia è in declino rapido, è un paese al crepuscolo. E' per questo
che il mio spettacolo si chiama Blackout e io entro in scena in una sala
al buio, con in mano un candelabro. Faccio l'attore comico, il declino
dell'Italia lo percepisco principalmente con gli occhi e le orecchie:
vedo la pubblicità e la volgarità dilagare ovunque nel paesaggio, nei
mezzi d'informazione, nella vita quotidiana. Dove prima c'erano
capannoni industriali, oggi ci sono lunghe file di cartelloni
pubblicitari; ritraggono spesso merci che una volta erano prodotte in
quei luoghi ma oggi sono importate.
Vedo il degrado dell'ambiente e della grandi città, sento il traffico e
il rumore aumentare ovunque. Sento la gente: avvilimento, mancanza di
prospettive, ignoranza e disinteresse per ciò che succede nel resto del
mondo, egoismo, cattiveria e volgarità crescenti, chiusura nei propri
affari e nella famiglia, declino del senso civico e della solidarietà.
Anche se come artista avrei il diritto di farlo, non mi baso solo sulle
mie impressioni. Io - attore vero - non voglio fare come Berlusconi -
statista falso - che parla in televisione nascondendo i fatti e le
statistiche, evocando sogni, promesse, miracoli e rivoluzioni. Mi piace
documentarmi con dati e cifre nudi e crudi, senza lifting. Ai pochi
stranieri che volessero ancora investire in Italia e ai molti italiani
che volesse votare di nuovo per il sistema Fininvest-Forza Italia
consiglio due piccoli libri: "Il mondo in cifre 2004", una
sintetica raccolta di statistiche internazionali curata dall'Economist
(e pubblicata da Internazionale) e "Il declino dell'Italia",
un inquietante libro del giornalista economico Roberto Petrini
(Laterza). Spendendo meno di trenta euro in questi due libretti, chi si volesse
documentare sul crepuscolo italiano può forse schivare ulteriori guai e
investimenti sbagliati.
Se parlo di crepuscolo dell'Italia, non mi baso solo sulle mie
impressioni del presente, ma anche sugli indicatori che ci segnalano il
futuro del paese. E questi indicatori mettono tristezza. L'Italia sta
diventando un ex paese industriale che ha smantellato o sta smantellando
buona parte della sua industria, una volta ben piazzata nel mondo:
chimica, farmaceutica, informatica, elettronica, aeronautica, forse
presto anche automobilistica.
L'Italia è il paese con più persone anziane al mondo e con la minore
fertilità tra i paesi industrializzati: da anni le nascite sono meno
delle morti. I nostri livelli di istruzione, di cultura, di ricerca
scientifica e tecnologica sono tra i più bassi al Europa. Tra i paesi
industriali abbiamo una delle più basse percentuali di laureati e il più
alto numero di maghi, pubblicitari e guaritori. Invece di investire e
lavorare per il futuro stiamo consumando allegramente le ultime risorse
che ci rimangono. Nella quota delle esportazioni mondiali in dieci anni
siamo scesi dal 5 al 3,6 per cento. Nelle esportazioni mondiali di
prodotti tecnologici stiamo scomparendo con un piccolo 2,5 per cento,
mentre Francia e Germania sono al 6 e all'8 per cento.
Esaminando la posizione dell'Italia nel contesto internazionale non c'è
da stupirsi se siamo il paese industriale che attira meno capitali
stranieri. Gli investimenti delle multinazionali in Italia sono
diminuiti dell'11 per cento nel 2001, del 44 per cento nel 2002.
Per bocca di due dei suoi ministri più influenti il governo italiano
afferma che l'Unione europea è dominata dai "nazisti rossi".
Uno di loro dice che l'Europa è "forcolandia", che con il
fallimento della costituzione europea a Bruxelles "siamo riusciti a
fermare l'impero comunista che stava tornando", che "l'euro è
la rapina del millennio. L'hanno inventata i massoni". Se foste un
investitore straniero mettereste i vostri soldi in un paese governato da
gente così?
Se osserviamo la posizione dell'Italia in alcune classifiche
internazionali può sembrare quella di un paese fortunato: settimo pil al
mondo, quarto posto tra i grandi paesi per numero di automobili e di
telefonini per abitante. Ma se analizziamo gli indicatori che danno
un'immagine più completa dell'Italia e soprattutto delle sue opportunità
per il futuro, allora siamo al crepuscolo.
In una ventina dei principali indicatori internazionali che delineano il
futuro e la dinamica di un paese, l'Italia si trova tra il ventesimo e
il quarantesimo posto. Gli stati che più spesso ci accompagnano in
queste classifiche sono paesi in via di sviluppo (Colombia, Namibia, Sri
Lanka, Cina, Brasile), paesi dell'Europa dell'est in transizione
(Slovenia, Estonia, Slovacchia) o nel migliore dei casi i meno
sviluppati tra i paesi europei (Spagna, Portogallo, Grecia).
La differenza preoccupante tra l'Italia e questi paesi è che loro da
anni stanno salendo nelle classifiche internazionali, noi invece stiamo
scendendo. Ogni anno ci incontriamo con loro sui pianerottoli della
scala internazionale: li vediamo salire e noi scendiamo di un'altra
rampa.
E' incredibile la profondità del declino italiano. Nel Rinascimento siamo
stati un faro della cultura, della scienza, dell'innovazione e della
finanza in Europa. Nella musica e nella tecnica bancaria ancora oggi
molti termini tecnici in tedesco e in inglese sono parole italiane
(sonata, adagio, fortissimo oppure aggio, incasso, sconto, lombard) a
testimonianza dei secoli in cui eravamo il paese di riferimento in quei
campi.
Più tardi abbiamo inventato l'elicottero, l'aliscafo, il batiscafo, il
telefono, la radio. Oggi però non inventiamo quasi niente, l'Italia ha
meno premi Nobel del solo Politecnico di Zurigo, il nostro export si
basa su prodotti di bassa tecnologia che presto vedranno la concorrenza
dei paesi emergenti, mentre nei prodotti ad alta tecnologia non possiamo
competere con le nazioni più avanzate.
I nostri manager in compenso vogliono orientarsi per i loro stipendi
agli Stati Uniti e per quelli dei loro dipendenti alla Bulgaria o alla
Cina. Il numero dei laureati italiani che lavorano all'estero è sette volte
maggiore del numero dei laureati stranieri che lavorano in Italia. Per
decenni buona parte della grande industria e dell'export italiano hanno
prosperato grazie alla benevolenza dello stato e dei partiti e alle
periodiche svalutazioni della lira. Oggi che questo non è più possibile,
il declino italiano si accelera. Paghiamo il prezzo delle modernizzazioni
che non abbiamo fatto negli ultimi anni.
Al crepuscolo industriale, tecnologico e culturale dell'Italia si
aggiunge il declino sociale con un rapido aumento della ricchezza dei
ricchi e l'estensione e l'approfondimento della povertà. Nella
disuguaglianza dei redditi abbiamo superato perfino gli Stati Uniti: in
un decennio (1991-2001) il 20 per cento degli italiani è diventato più
ricco, l'80 per cento più povero.
Il reddito del decimo di italiani più ricchi è cresciuto del 12 per
cento, mentre il reddito del decimo di italiani più poveri è sceso del
22 per cento. Otto milioni di italiani vivono sotto la soglia di povertà
e altri quattro milioni vivono appena sopra. Molti di questi poveri e
quasi poveri hanno un lavoro o due o tre, ma non gli bastano per vivere
decentemente.
Lo stipendio medio di un tranviere a Zurigo (5500 franchi) è quasi il
triplo di quello di un tranviere di Milano, ma il costo della vita e dei
biglietti del tram a Zurigo è solo il 50 per cento più alto che a
Milano. Stipendi reali sempre più bassi e lavori sempre più precari
fanno crescere la conflittualità selvaggia - come quella dei guidatori
di tram e autobus - che frena ulteriormente la qualità della vita e lo
sviluppo del paese.
Il declino della Fiat è forse uno dei migliori indici del declino
italiano: dieci anni da Fiat vendeva in Italia un'auto su due, oggi una
su tre. L'immagine più forte del crepuscolo italiano è stata per me
quella della
carovana di limousine scure che in una sera del 2002 - al culmine di una
crisi della Fiat che sembrava mortale - ha portato l'intero stato
maggiore della Fiat a un consulto drammatico, non al ministero
dell'industria o delle finanze ma nella grande villa di Arcore di Silvio
Berlusconi, padrone della Fininvest e capo del governo.
Le immagini del telegiornale sembravano quelle di un film sulla mafia,
quando avviene un regolamento di conti e un cambio della famiglia al
vertice del potere. Era la resa di ciò che resta dell'Italia industriale
alla nuova egemonia, all'Italia della pubblicità e della televisione
commerciale. La resa della sostanza all'apparenza.
Non è un caso che l'industria che ha conquistato il potere politico in
Italia non fabbrichi cose ma sogni, non venda merci ma promesse.
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